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Libri e romanzi


S. Bellof

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Ho bisogno di un consiglio. Sto cercando un libro abbastanza raro: in Italia è stato stampato solo una volta, nel 2001. Si intitola "L'ultimo guardiano", l'autore è Jeff Grubb. Ce l'ho in inglese, ma nonostante me la cavi piuttosto bene con la lingua non riesco a capirne i dettagli come vorrei. Vorrei quindi riuscire a trovarlo in italiano. Ho già  controllato in diverse librerie e biblioteche, nessuno lo ha mai sentito nominare :asd: qualcuno di voi conosce qualche sito dove posso cercare? O una libreria alla quale posso rivolgermi? Ho già  controllato tutti i maggiori rivenditori (ibs, feltrinelli, mondadori, ecc ecc) senza successo. Ho solo trovato un'inserzione su ebay scaduta qualche mese fa. Va benissimo anche usato..

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  • 2 weeks later...

Togliere il senso? Buona fortuna. 

 

E' il sogno del prelinguistico, vecchio come le Upanishad. La coscienza è un dato biologico, quindi uscire dai linguaggi (dal senso) è, appunto, un gioco di parole.

 

In che senso etica e morale sarebbero menzogne? Cosa vuol dire che l'esistenza è insensata nelle sue stesse regole o che Il senso è dettato dal caos? 

 

La critica del linguaggio è una lunga storia, da De Saussure a Lacan (quest'ultimo decisamente ignorato, e distruttore di Freud.. ignorato forse per quello, infondo anche gli psicologi devono lavorare, se gli rovini il gioco fanno la fame). Tutta la conoscenza in sé è per forza ancorata alla mediazione linguistica, alla mera nominazione priva di oggetto e soggetto. Lo aveva capito Einstein, e anche Nietzsche: "Se cerchiamo di considerare lo specchio in sé, finiamo per scoprire su di esso nient'altro che le cose. Se vogliamo cogliere le cose, ritorniamo in definitiva a nient'altro che lo specchio. Questa è la più universale storia della conoscenza". Una contraffazione ottica da cui si è arrivati frettolosamente al famigerato "guardarsi dentro" e definito altrettanto frettolosamente come "coscienza". Qui nasce la cancellazione del "cogito ergo sum" corretto nella filosofia moderna da Nietzsche in "cogito ergo est". Perché la questione ruota attorno a qualcosa di più grande, cioè "l'essere". Parmedine nella filosofia anitica diceva: "l'essere è e il non essere non è" e questa è la disciplina ancora esistene dell'ontologia. Premesso questo, possiamo iniziare a porci un primo quesito di fondamentale importanza.. perché farsi tante domande sull’essere? Una risposta l’ha fornita Aristotele dicendo che gli uomini se lo domandino perché ne sentono l’emergenza della meraviglia.. ma meraviglia si, ma di cosa? Forse del fatto che tutto esista? A tale proposito possiamo anche citare la famosa domanda di Heidegger che dice: perché l’essere e non piuttosto il nulla? Quando ci troviamo dinnanzi a questa verità , diventiamo consapevoli di non poter in alcun modo andare oltre l’essere, o più precisamente oltre il pensiero dell’essere. Pensiero che teoricamente dovrebbe essere posseduto dal soggetto pensante, per l’appunto. Ma è forse vera la celebre affermazione cartesiana che dice: "penso e dunque sono?" (appunto cogito ergo sum). Ma quando noi diciamo che il bicchiere “àˆâ€ sul tavolo, che cosa intendiamo? Fuori dalla nostra percezione, e dunque fuori dal nostro linguaggio, QUEL bicchiere àˆ realmente sul tavolo? Piuttosto l’oggetto del nostro interesse è forse quella cosa che noi chiamiamo bicchiere, oppure è la stessa parola che nominiamo? Ma ancora, è più scottante il fatto che quel bicchiere SIA, oppure che cos’altro? Qui determiniamo un punto di centrale importanza, ovvero non tanto quella dell’essere delle cose, ma piuttosto del verbo essere stesso. Fuori di esso, in effetti, di che cosa si può dire che esista? àˆ addirittura impensabile che qualcosa vada fuori dal verbo essere, poiché questo include tutto, o meglio tutto si include in esso. Ma dunque quella distinzione fra soggetto e oggetto, può essere ancora forte? Il soggetto in relazione all’oggetto, si ma l’essere stesso del soggetto pensante, è anch’esso un pensato, dunque è oggetto di pensiero. Tutto ciò che è pensato è oggetto. Tutto, anzi, è oggetto. Ogni qualvolta noi usiamo il linguaggio, diciamo qualcosa che non è quel che vorremmo dire, ma è quel che diciamo. Dunque il linguaggio, in un certo senso, ci precede. E considerando dunque il concetto di esserci (Da-sein), se si è compreso che quest’essere non va più inteso come semplice presenza, ma solo più come una "lampada", allora possiamo andare ben oltre il concetto di esserci. Difatti Heidegger sorpassò la sua analitica dell'esistenza e dell'esserci per giungere al concetto di Gelassenheit, ovvero di abbandono. Abbandonarsi all'essere e cioè imparare l'ascolto. Piuttosto che di Dasein, dunque, io credo che noi dobbiamo introdurre un altro termine di fondamentale importanza, ovvero quello di Sosein (essere così). Ovvero è centrale il fatto che le cose siano così, e con esse anche lâ€™àˆ delle cose. Cioè tutto ciò che è, àˆ così perché àˆ così. E quel che a noi deve interessare è che le cose siano come sono. Il fatto stesso che le cose siano dette tali, è perché noi le pensiamo in una sfera che è propria del verbo essere. Noi siamo abituati, ahimè, a sottovalutare fortemente la forza e il potere del pensiero. Poiché troppo spesso gli abbiamo assegnato un valore morale, un compito etico, assegnandoci quel Sartriano engangement, composto in realtà  di soli riflessi su riflessi di riflessi di senso. Il linguaggio raffigura i concetti e gli oggetti e lo fa più o meno, pressoché, a grandi linee, giù per lì, su per giù. l mondo sta infatti, soprattutto nel linguaggio, e tutto ciò che accade lo fa nel mondo. Per questo bisogna usare piuttosto che cogito ergo sum, il detto cogito ergo est; e con esso non intendo dire “penso dunque quel qualcosa èâ€, ma piuttosto diciamo che penso dunque àˆ, o meglio se io penso è perché vi è quell’è. Penso dunque verbo essere, in caso contrario non vi sarebbe pensiero. E non si può pensare ad un principio di ragion sufficiente di quell’essere, perché esso mantiene in sé la sua Aseità . àˆ dunque il pensiero a donare l’essere alle cose. E l’essere a rendere possibile il pensiero stesso.

Modificato da Clarissa
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Non è facile districarmi nella tua risposta, che non riprende la domanda se non alludendovi in modo vago (si vede che volo troppo basso).

 

 

La critica del linguaggio è una lunga storia, da De Saussure a Lacan (quest'ultimo decisamente ignorato, e distruttore di Freud.. ignorato forse per quello, infondo anche gli psicologi devono lavorare, se gli rovini il gioco fanno la fame).

 

E' una storia più lunga di così, sia sincronicamente che diacronicamente. E per fortuna direi. Il tuo discorso comprende solo un certo tipo di pensatori, e questa è una cosa che devi comprendere e alla quale, nel tempo e se ti interessa, dovrai ovviare. Trascuri totalmente il pensiero anglosassone, ossia il più rilevante in ambito di analisi e critica dei linguaggi. Alcuni nomi? A parte i nominalisti, Bacone e Hobbes in primis, su tutti Peirce e quindi Putnam e Eco. Parli di linguaggio senza utilizzare il concetto di Segno, ad esempio, il che è demenziale. Ti manca "la metà " migliore della storia del pensiero, quella che non si parla addosso. Autori come Nietsche o Heidegger (ma anche Greimas, il secondo Barthes, l'imbarazzante Deleuze...) hanno la caratteristica comune di confondere le acque con quello che definirei un "iperdefinizionismo" del tutto sovradimensionale rispetto ai concetti veicolati (che sono miserrimi), che tradisce un'invidia di fondo verso i narratori di mestiere. La colpa è di Hegel, e in Germania usava così, anche un grande come Adorno ne paga lo scotto, ma il fondo di verità  che alberga nel luogo comune del "filosofo che si trincera dietro a parole vuote" è colpa di tanto pensiero continentale, principalmente tedesco e francese. E parlo da filosofo  ;)

 

Un suggerimento. Prova a spiegare i concetti come se li dovessi esporre a un camionista analfabeta. Se funzionano, li capirà  anche lui. (Einstein diceva che hai capito qualcosa quando sapresti spiegarlo a tua nonna).

 

Mi si incrociano gli occhi, ma intuisco che sostieni la natura non "immediata" del pensiero rispetto agli oggetti, così come il fatto che non si dà  conoscenza degli oggetti che non sia filtrata dal pensiero. Se è così è ovvio ed è quello che sostengo anch'io (ma che contraddice le tue affermazioni circa le quali ti ponevo le domande). Intorno al tuo discorso sul verbo essere, mi sfugge il nesso. Non capisco se sei scettica rispetto allo statuto del reale o se ti molci semplicemente del fatto che tra noi e le cose c'è sempre un segno di mezzo (hai nostalgia dell'Assoluto? Siccome non c'è Dio allora niente ha senso?). Il dubbio mi deriva soprattutto da questo passaggio, in cui sembra che il tuo dubbio sul reale sfoci nel paradosso del cervello nella vasca:

 

 

QUEL bicchiere àˆ realmente sul tavolo? Piuttosto l’oggetto del nostro interesse è forse quella cosa che noi chiamiamo bicchiere, oppure è la stessa parola che nominiamo? Ma ancora, è più scottante il fatto che quel bicchiere SIA, oppure che cos’altro? Qui determiniamo un punto di centrale importanza, ovvero non tanto quella dell’essere delle cose, ma piuttosto del verbo essere stesso. Fuori di esso, in effetti, di che cosa si può dire che esista? àˆ addirittura impensabile che qualcosa vada fuori dal verbo essere, poiché questo include tutto, o meglio tutto si include in esso.

 

Poi:

 

 

Abbandonarsi all'essere e cioè imparare l'ascolto.

 

 

Qui c'è un po' puzza di misticismo. Il linguaggio (o il pensiero, per me pari sono) non può essere aggirato, anche "abbandonandosi". Ripeto, è tutto molto orientale in senso deteriore. L'essere non parla se non per bocca nostra, come ascoltarlo tacendo?

 

Ancora:

 

 

Cioè tutto ciò che è, àˆ così perché àˆ così. E quel che a noi deve interessare è che le cose siano come sono.

 

Ma come sono le cose, di grazia? Ti riferisci alle cose che precedono la loro "nominazione" all'interno del linguaggio (quindi oggettività  prelinguistica)? 

 

 

àˆ dunque il pensiero a donare l’essere alle cose. E l’essere a rendere possibile il pensiero stesso.

 

Questo è un aforisma cancrizzabile che non vuol dire una mazza. Non puoi dire che arrivano insieme, intendo cose e pensieri. Chi suscita chi? E come? Tutto il duo discorso, che verte sull'epistemologia, pone questioni cui non risponde. 

 

Inoltre, anche sforzandomi, non vedo la risposta a queste domande:

 

 

In che senso etica e morale sarebbero menzogne? Cosa vuol dire che l'esistenza è insensata nelle sue stesse regole o che Il senso è dettato dal caos? 

 

A me interessava la risposta a queste domande, perché seguono ad affermazioni molto impegnative e quindi interessanti. Se la risposta sta qui...

 

 

Noi siamo abituati, ahimè, a sottovalutare fortemente la forza e il potere del pensiero. Poiché troppo spesso gli abbiamo assegnato un valore morale, un compito etico, assegnandoci quel Sartriano engangement, composto in realtà  di soli riflessi su riflessi di riflessi di senso.

 

...allora il tuo rischia di essere uno scetticismo pessimistico da tre lire. Non abbiamo la verità  con la V stramaiuscola e quindi tutto è relativo? Davvero è tutto qui il tuo ragionamento sulla morale? Su concetti come esistenza insensata o senso dettato dal caos non mi hai dato neppure il principio di una risposta, francamente.

 

Di sicuro ti consiglio il libro di Eco Kant e l'ornitorinco, il cui primo saggio (Sull'essere) è proprio intorno alle questioni di cui sopra (e Aristotele e Heidegger sono al centro del suo ragionamento).

 

Ancora, se vuoi Descartes smontato come si deve, leggi il saggio di Peirce "Some consequences of four incapacities", lo trovi anche nel tomo Bompiani dedicato a Peirce.

 

E, assolutamente, questo libro qui: http://www.garzantilibri.it/default.php?CPID=842&page=visu_libro

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Mi trovo d'accordo con Sun, io poi pur non avendone le nozioni (in parole povere di filosofia non ci capisco na cippa oltre che ritenermi un essere sufficientemente ignorante ed incolto :asd:) trovo il dibattito interessante e stimolante, si potrebbe quasi farne un topic a parte.

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Me sta uscì il sangue dar naso :asd:

Io sono un ignorantone ma come gli altri trovo interessante la conversazione.

Torno in topic

Ho letto Tokyo Vice, un reportage di Jake Adelstein e mi è piaciuto molto, lo scrittore riporta la sua esperienza in Giappone per diventare un giornalista di cronaca nera.

Usi e costumi della brava gente giapponese e soprattutto degli yakuza sono stati molto interessanti, molto coinvolgente anche l'ultima parte del libro in cui jake si mette in gioco mettendo a rischio la propria vita e quella dei suoi cari.

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L'ho finito stamattina, sul traghetto. Non sono un gran critico letterario, ma Eco mi diverte sempre. Stavolta c'è un protagonista (un abile falsario) che vive direttamente i grandi momenti della storia europea della seconda metà  dell'Ottocento (la spedizione dei Mille, la Comune di Parigi ecc. ecc.), tra veri e falsi miti su massoneria, complotti ebraici e via che vai. Sarà  anche vero che Eco tende a riversare la sua sconfinata cultura nei romanzi che scrive (e anche stavolta si assiste allo svolgimento dell'enunciato secondo cui "i libri parlano sempre di altri libri, e anzi si parlano tra loro") ma l'intreccio non ne risente affatto, anche grazie alla gustosa ironia che non manca mai. Intrattenimento colto, ma coinvolgente e mai noioso.

 

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Bravo Sun, sai che approvo  :asd: per quanto tra i romanzi di Eco sia quello che mi ha emozionato di meno. Considerando i primi quattro inarrivabili, devo dire che "La misteriosa fiamma", per quanto meno strutturato del Cimitero di praga aveva più slanci lirici e alcune parti erano all'altezza del miglior Eco. Qui invece un po' troppo Eco "alla maniera" di Eco. Comunque libro super

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Eco, non so perchè, ho sempre la sensazione che lo paghino un tanto "a pagina"

 

Beh, ma non è mica un romanziere "seriale": in 35 anni ha pubblicato 6 (sei) romanzi. E guardando la qualità  degli stessi, io esulterei se i vari e veri pennaioli pagati un tanto a pagina sfornassero romanzi come quelli di Eco....

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Il 14/1/2014 at 12:14 , Ayrton4ever ha scritto:

non giudico certo la qualità  ma la prolissità  nella narrazione

 

Sì, è vero, anche io in genere amo la sintesi (prendi l'inarrivabile e sintetico Borges, di cui peraltro Eco è un ammiratore), ma con Eco faccio eccezione. E tutti quei particolari storici che inserisce, spesso mi fanno re-interessare ad avvenimenti che da tempo non degnavo di attenzione, oppure mi inducono ad approfondirne altri...

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Questo a mio parere è un libro imperdibile per chi è appassionato di auto, nel senso di auto di serie, e di tutta l'industria connessa. 

 

L'avrò letto millecinquecento volte, e persino un paio di amiche che se lo sono trovato tra le mani perchè lo avevo prestato ai loro fidanzati, hanno finito per leggerlo e dire: "Non avrei mai immaginato che un libro che parla dell'industria automobilistica potesse essere così bello!"

 

Lee Iacocca, una carriera fulminante prima alla Ford, dal 1946 al 1978, dove diventa Direttore di divisione e poi Direttore Generale in giovane età , per poi essere silurato da Henry Ford perchè troppo "ingombrante", e poi l'arrivo all'agonizzante Chrysler nel 1979, ormai sull'orlo del totale fallimento, e che invece viene miracolosamente salvata e rimessa in sesto in meno di quattro anni...

 

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  • 2 weeks later...

di libri in grado di catturarti invogliandoti a leggerli tutto d'un fiato ne ho trovati pochi (e ormai leggo molto poco rispetto al passato)

voglio elencare i libri che mi hanno fatto provare le emozioni sopracitate:

-le cosmicomiche di italo calvino;

-il garofano rosso di elio vittorini;

-la saga 'a song of ice and fire' di george r.r. martin (la serie tv game of thrones è tratta da questa saga);

-la storia d'Italia di indro montanelli;

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