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10 ore fa, leopnd ha scritto:

Ci siamo messi daccordo con Alessandro che tutti i topic dei piloti siano intitolati solo con nome e cognome, piu' bello e pratico... Poi, sopranomi e varie nei tag o nel testo... :)
Cosa vuol dire "nicchia"? :)

"Nicchia" è un gruppo ristretto di persone, con un interesse in comune, spesso questo interesse non è per tutti ma solo per pochi intenditori

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  • 2 weeks later...
  • 11 months later...

Qualche anno fa mi ero dilettato a scrivere un pezzo sul GP di Australia 1986, dal lato prospettico di Keke Rosberg. Recentemente l'ho revisionato e per quanto riguarda l'intervista in calce dovrei controllare meglio quale fosse stata la fonte. Sono passati così tanti anni ma penso sia contenuta in qualche 'Motorsport'. Saprò essere più preciso dopo aver eseguito un controllo ulteriore. Ho trovato proprio l'altro ieri un articolo interessante da tradurre, contiene qualche aneddoto interessante.

Una carriera breve ma intensa: l’ultima chiamata per Keke - GP Australia 1986, Adelaide

Adelaide 1986.

Un articolo su una gara passata alla storia per ben differenti motivi, avrebbe dovuto avere non un titolo del genere, si potrebbe obiettare. I protagonisti sarebbero dovuti essere altri, la posta in palio di quel confronto il titolo piloti. Certo, fu una stagione fuori dalla norma, spettacolare, con gli equilibri che andavano assestandosi e definendosi di gara in gara, combattuta sostanzialmente a tre. Tra costoro non c’era Rosberg e, anzi, a volere essere puntuali, precisi e pignoli, prima dell'accensione dei semafori soltanto due piloti conseguirono l'onore di essere annoverati, comprensibilmente, come gli unici papabili in vista del trionfo alla fine della fiera e costoro rispondevano al nome di Nigel Mansell e Nelson Piquet. Ecco perché la vittoria di Alain Prost, etichettata come 'rocambolesca' al tempo, fece e continua a fare scalpore ancora oggi. Le statistiche invogliano il lettore a credere che quello del millenovecentoottantasei si fosse rivelato un 'mondiale piloti' buttato al vento dalla Williams, proprio come cinque stagioni prima. Allora ad avvantaggiarsene fu la Brabham di Piquet, questi al suo primo alloro iridato. In quella nuova occasione propizia che il destino gli mise davanti, invece, fu proprio il brasiliano ad immolarsi come una delle vittime sacrificali del fato. Sempre le statistiche, fredde e scarne, riportano a chiare lettere anche un altro dato abbastanza notevole: Prost campione per la seconda volta consecutiva.

Ciò nonostante, solo a coloro beneficiati per natura di maggior memoria è noto che per Kejo “Keke”Rosberg, il primo finlandese vincente in F1 - a dire la verità, nativo di un paesino vicino Stoccolma - la gara disputata in terra australiana rappresentò, ormai, il capolinea di una carriera, di certo, corta se raffrontata a quelle dei piloti odierni ma anche intensa e particolare. Appena un anno prima colui che gli aveva passato il testimone del sedile Mclaren, un certo Niki Lauda, terminava con un ritiro dolce-amaro proprio ad Adelaide il proprio secondo ed ultimo corso in Formula Uno, vincente come lo fu il primo. Epoche diverse ma associate grazie a un filo di continuità: Niki Lauda stesso.

Keke, come ti sarai sentito, da quali emozioni interne sei stato scosso, quali pensieri martellanti hanno animato la tua mente poco prima del via? L’ultima volta nel sentire correre lungo la schiena quei brividi secchi, fulminei ma inesorabilmente eterni nel loro perdurare in quegli attimi, quell’ansia snervante che ti ha portato a fare gesti quasi ripetitivi e meccanici ma propiziatori prima di ogni gara. Cercare di ripercorrere passo dopo passo, attraverso le immagini fulminee che trapassano la mente come piccole scariche elettriche, i momenti chiave di una carriera fino ad allora vissuta, colma di emozioni regalate, affrontata con il piglio giusto di chi ha avuto la consapevolezza di lottare al limite delle proprie possibilità, senza strafare il più del dovuto. Perché quando si è maturi, si è consapevoli di non poter rischiare più di tanto. Ti ricordi quegli ultimi giri in Stiria testa a testa con Elio? Entrambi dichiaraste di aver corso al limite ma entro la soglia di sicurezza. Elio l'aveva imparato strada facendo, a suo dire, tu hai applicato alle corse la razionalità metodica propria della professione medica, a cui avresti voluto accedere. Altrimenti avresti potuto rischiare di farti male per davvero. Questo lo sai bene, con quelle maledette macchine risulta tremendamente facile. Sei arrivato nel circus con un po’ di anni di praticantato già alle spalle nelle formule propedeutiche, a quell'età in cui la foga giovanile e gli impeti sono riposti nel cassetto e lasciati alle spalle. Certo, a volte sono riaffiorati, facendo capolino improvvisamente, come quella volta a Long Beach, ma anche altrove ... ricordi?

Sentire, come dire, quasi una morte interiore giacché le corse fino a quel momento sono state la tua vita. L’ultimo atto prima di una nuova fase della tua esistenza, lontano dai fremiti e dallo stress provocato quasi ad arte dall’agonismo puro.

Un evento lo aveva provato in modo indelebile, la scintilla che piegò la sua, ormai, flebile resistenza e lo convinse del tutto a dire “basta” nei confronti di quella quotidianità vissuta con una certa dose di sacralità nel rispetto di quel formalismo dovuto che ci si aspetta da un professionista del mestiere, compensata da un agire improntato, volentieri, ad una logica informale, meno stringente, consona alla vita da jetset di routine del pilota. Un addio premeditato lungamente durante l’anno, non giunto come un fulmine a ciel sereno, una liberazione agognata e finalmente assaporata nel momento in cui il tuo ritiro si concretizzava. Saresti, forse, tornato sui tuoi passi se quel principio di trattativa con la Ferrari avesse avuto una prosecuzione nel 1989?

L’ultima recita da protagonista di Keke equivalse a qualcosa di memorabile e, dopotutto, le strette vie di Adelaide si erano ampiamente dimostrate confacenti al suo stile di guida in passato. Con tutta evidenza si palesò nella sua epoca come uno dei piloti più prestanti nei circuiti cittadini, quasi sempre protagonista nel bene e nel male. Dotato di una precisione di guida non comune, abbinava alla capacità di conduzione del mezzo 'pulita' un'ottima abilità da stratega, ciò che oggigiorno viene appellato come 'visione di gara', il tutto commisto a quella rabbia agonistica che, spesso, quando non trascendeva essa stessa fino a scolorire e connotarsi negativamente, era idonea ad abilitarlo nel seguire convenientemente e assenatamente la via tracciata dalla logica, e prestargli il proprio aiuto nel non farlo destare dal torpore della concentrazione in cui pareva assorbito. Due facce della stessa medaglia: sicumera e foga esagerata, Long Beach 1983; spietato calcolatore, Dallas 1984; raziocinio proprio del dominatore, Monaco 1983. Esteta ed equilibrista, forma e sostanza compendiate in maniera complementare.

La prima parte di gara scorre senza eccessivi patemi, lisci come l’olio, crescendo il distacco dal resto del gruppo continuativamente e in maniera graduale ad ogni tornata completata nell'impervio e sconnesso asfalto del circuito cittadino australiano. Qualificatosi in settima posizione, aveva approfittato dei problemi in cui era incorsa la Ligier di Arnoux e della falsa partenza della debuttante Benetton dell'austriaco Berger, oltre che di quelle più eclatanti di Prost e dello stesso summenzionato Mansell, questi favorito alla vigilia. Dopo aver completato il primo dei sessanta giri previsti, Rosberg si era ritrovato più per i propri meriti che per le avversità altrui a ricoprire una prestigiosa terza posizione. L'ascesa verso il vertice veniva, quindi, coronata dai sorpassi ai danni di Senna nel corso del secondo giro e Piquet nel sesto. Sebbene la posizione sia privilegiata, è, infatti, al comando, ha la sensazione che gli sia negata a priori la possibilità di poter tentare la strada della vittoria. Due anni prima i rapporti con Frank Williams si erano deteriorati: era stato ingaggiato il britannico Nigel Mansell dopo l'addio di Laffitte, senza essere stato interpellato in merito per poter ricevere da lui, se non un beneplacito, perlomeno, un parere. Fu un sintomo lampante. A quel punto Keke capì di aver perso i gradi di prima guida indiscussa all'interno della squadra. A fine millenovecentoottantacinque era riuscito ad accordarsi con Ron Dennis, conscio che la paventata parità di trattamento sarebbe stata destinata a recedere di fronte ai risultati in gara ottenuti tanto da lui che dal suo nuovo compagno di scuderia, il transalpino Alain Prost. Ora quel pensiero era divenuto certezza poiché Alain aveva un traguardo da raggiungere, ambizioni più elevate e sublimate rispetto alle soddisfazioni che la vittoria di un Gran Premio poteva essere in grado di arrecare. Si trattava semplicemente di capovolgere la visione: il singolo Gran Premio, non importa che fosse l'ultimo della carriera di chicchessia, assumeva le sembianze della mera tappa di un percorso. Keke non può restare così a lungo al comando, dietro Alain incalza i propri avversari alla ricerca disperata della vittoria del titolo, tanto agognata e sperata quanto potenzialmente ardua a realizzarsi. Il francese, già uomo di punta Renault al tempo dei fasti di Keke, corre per tentare di agguantare quel gradino più alto del podio in classifica generale che, durante il dispiegarsi della gara, sembra ormai etereo, una luce foca e lieve che il lento ed inesorabile proseguio del mondiale, appuntamento dopo appuntamento, aveva contribuito lentamente ad affievolire. Ora lo percepisce solo in maniera labile, quasi riesce a scorgerlo, ormai, indistinto. Il titolo piloti, il secondo alloro consecutivo diveniva, di fatto, un miraggio, calato nella sua essenza adornata dalla qualità dell'indeterminatezza.

Due animi confliggenti si affrontano nello spirito di chi conduce la gara. La volontà di ottenere un'ultima vittoria, degno ultimo saluto prima di lasciare, al termine di una stagione sottotono, un mondo che più non gli appartiene da tempo. Qualcuno potrebbe essere portato a pensare si fosse potuta trattare della gara personalmente caricata di maggior senso, perciò valore, ancor più, ad esempio, di quella di Digione - in Francia ma valida per il gran premio elvetico del 1982 -  l’unica gara vinta nella stagione del titolo. Quattro anni prima la vittoria, per ironia della sorte, sarebbe potuta anche non arrivare e ciò non sarebbe andato necessariamente ad inficiare il cammino verso una gloria autenticata dai dati statistici contenuti nell'albo d'oro. Più della lezione di guida impartita a Montecarlo nel 1983, più della rocambolesca Dallas 1984, dove, alla fine, era riuscito a trionfare un Keke inedito, calcolatore si è detto, tanto nella visione complessiva di gara che nel consumo degli pneumatici. Dall’altra parte si affaccia il senso di altruismo, l'agire sacrificando le proprie aspirazioni individuali egoistiche per il 'bene comune' della squadra, una privazione necessaria e necessitata per fare in modo che il transalpino possa riuscire nell’impresa.

“Alain e io parlammo prima del via. Gli dissi chiaramente che avrei fatto la mia gara, e che sarei andato a vincere se possibile. Mi rivolsi a lui pressapoco con queste parole -: "Il mio capolinea è arrivato e vorrei ricordarmi di questo giorno per qualcosa di positivo, dopo una stagione abbastanza tormentata. L’unica cosa logica da fare, mi sembra, è andare al comando e piazzare qualche giro veloce in modo da allontanare le Williams per costringerle a spingere. Magari caricare nel serbatoio un pò più di benzina rispetto a loro o, quantomeno, farglielo credere" - Pensavo che se Alain avesse corso una gara alla sua maniera, amministrando in modo intelligente, magari, verso le ultime fasi, avrebbe potuto ritrovarsi davanti a loro. E in quel caso gli avrei lasciato il testimone. Contribuire a fargli vincere il mondiale rappresentava anche per me una forma di ricompensa. Mi sarei sentito realizzato lo stesso, come se fossi stato io a vincere la gara. E se qualcosa gli fosse successo, bè, allora avrei tentato di farmi un ultimo regalo. Alain è stato il miglior pilota con cui mi sono confrontato nella mia carriera, intelligenza e manico allo stesso tempo” - racconta oggi a tanti anni da quei giorni degli ormai lontani anni Ottanta.

“Quell’anno non fu di certo il mio migliore, per via degli innumerevoli problemi alla vettura, ma queste erano cose che sarebbero potute accadere a chiunque. E’ stato un misto concentrato di eventi occasionali che non sono andati per il verso giusto. Qualcuno la chiamerebbe “sfortuna”. Lo so che è difficile da credere ma è andata proprio cosi. Invece, mi è stata di grande aiuto l’atmosfera che si respirava all’interno della squadra. Non avrei vissuto in un ambiente sereno nei miei ultimi mesi da pilota se fossi rimasto alla Williams, lo so già, è un dato di fatto. Io avevo già preso la mia decisione, quella di lasciare il team di Groove per andare alla Mclaren e, oggi come oggi, se dovessi ripercorrere la mia carriera, ripeterei nuovamente tutto del mio percorso. Anche se la vettura del 1986 era un portento, come dimostrarono Nigel e Nelson che vinsero nove gare in due, non c’era più lo stesso feeling tra di noi e, comunque, già alla fine del 1984 mi ero riproposto di dire "stop" entro due anni al massimo. Quando la Mclaren mi fece l’offerta, ero contento di diventare parte della squadra di Dennis. Sapevo che probabilmente sarebbe stata la mia ultima stagione e volevo chiudere ottenendo per me e per loro il meglio possibile e avrei avuto l'occasione di fare tutto questo con in un ambiente professionale di alto livello. Molti pensano che me ne sia andato per colpa di Mansell. E’ sbagliato pensarlo anche se un fondo di verità in questa diceria c'è: fui io che posi il veto alla sua venuta ed è anche vero che iniziammo non benissimo la stagione. Dopo poche settimane, invece, imparammo a conoscerci e fui aiutato anche da Elio, che è sempre stato un mio grande amico, uno dei pochissimi di cui serbo un piacevole ricordo. Mi parlò bene di Nigel e mi disse che era un bravo ragazzo nonostante le apparenze. Lui aveva ben ragione di parlarne così dal momento che lo aveva conosciuto a fondo nelle recenti stagioni passate assieme ... Questo aiutò il nostro rapporto professionale e con il tempo non lo vedevo più in un'ottica negativa come, invece, all’inizio. Però, ribadisco, l’arrivo di Nigel non fu la causa prima della mia partenza. L’incidente che rese paralitico sir Frank e lo costrinse alla sedia a rotelle fu l’inizio della fine perché il potere passò nelle mani di un uomo il cui comportamento bieco fu la ragione del mio addio. Non potevamo sopportarci l’un l’altro. Non ho rimorsi nel pronunciare queste acri parole. Se non me ne fossi andato dalla Williams mi sarei ritirato a stagione in corso nel 1986”.

Il sogno di gloria termina improvvisamente, dopo essere stato alimentato a lungo. È nel corso della sessantaduesima tornata che una foratura costringe Rosberg al forzato ritiro. Stesso beffardo destino colpirà proprio Mansell un giro più tardi, immagine che resterà immortalata in eterno nella memoria degli appassionati della Formula Uno.

“Molte persone che mi sono state accanto mi ripetevano continuamente 'Perchè ti ritiri? La tua decisione è irrevocabile?' Bè, di certo avrei mentito se avessi detto di volere  correre ancora . C’erano milioni di ragioni personali e intime. Ad esempio, stare accanto e poter giocare con mio figlio era una delle più importanti ma, d’altra parte, tutte queste cose non mi distoglievano la mente quando ero dentro a un vettura da corsa, soprattutto allorquando si trattò di gareggiare per l’ultima volta, ad Adelaide!”.

Modificato da Elio11
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L'articolo fa parte della serie 'A pranzo con ... ' del magazine 'Motorsport'. Per Keke Rosberg hanno scelto il titolo '(No) lunch with ... Keke Rosberg' - Agosto 2008. Ho tradotto solo le parti rilevanti.

(omissis)

A detta di Keke Rosberg per raggiungere il vertice in Formula Uno servono due fattori: - “Molto talento oppure lavorare in modo arduo. Nelson Piquet, per esempio, non era un assiduo lavoratore, ma era dotato di talento innato. Ayrton Senna era un caso a parte, possedeva entrambe le qualità. Quanto a me, non mi sento di dire fosse questione di talento, al contrario, dovrei rientrare nella seconda categoria”

(omissis)

(il discorso verte sull’International Trophy del 1978)

Chi era mai questo finlandese quasi del tutto sconosciuto proveniente dalla Formula SuperVee che si era assicurato il volante di una scuderia, la Theodore, senza speranze?  Pioveva quel giorno, per giunta. I piloti dai nomi eccellenti terminarono anzitempo la propria gara ingloriosamente e Keke andò a vincere. “Credevo che quella gara fosse stato il punto di svolta dalla mia carriera, pensavo di essere ‘arrivato’. Li vidi tutti nel fango, i vari Peterson, Lauda, Hunt. Tenni a distanza Emerson Fittipaldi per una ventina di giri e riuscii a sopraffarlo. Eccomi, sto arrivando ... ragazzi, ci siamo! Ero giovane, inesperto e sciocco. Ancora non avevo idea di cosa fosse necessario per sfondare in Formula Uno. La memoria della gente per i successi che puoi riportare dura poco, il tempo di una giornata, fino alla gara successiva. Io ero convinto che fosse bastata quell'unica gara per farmi notare. Sbagliavo, mi ci vollero altri quattro anni di catorci prima di poter guidare una vettura decente.”

(omissis)

“Entrambi i miei genitori erano rallysti ma ad un certo punto della loro carriera dovettero smettere per mancanza di fondi. Iniziai con i kart fin dall'età di sedici anni dovendomi finanziare da solo. Anche allora commerciavo in materiali e importavo motori dall’Italia. Vinsi il titolo kart nel mio paese diverse volte ma il colpaccio lo feci terminando in quinta posizione a Parigi nel 1970, una gara valevole per il campionato mondiale. Mi recai in Francia con mio padre con mezzi abbastanza limitati, un solo telaio e un solo motore e dormimmo in tenda. Ebbi come vicino Hans Heyer con i suoi meccanici, tre telai e ventotto motori. Mentre ero in testa nella prima finale dopo essere partito dalla pole, quel bastardo (il motore ndr) si ruppe.”

 “Mi ero messo in testa di studiare medicina all’università. La mattina di un esame importante mi comportai in modo disgraziato non svegliandomi in tempo. Ero stato a studiare fino a notte fonda, staccando alle cinque. La mia intenzione era essere capace di pagarmi la retta praticando gli sport motoristici, applicandomici per passatempo senza farlo diventare il mio lavoro principale. Non ho mai ponderato di diventare un professionista nel mondo delle corse. Era completamente fuori dai miei pensieri più reconditi. Da giovane, fare l’astronauta o il pilota per me era identico, come non mi figuravo di praticare il primo mestiere, così non mi ponevo seriamente il problema di gareggiare Ero impiegato nel settore dell’informatica, dei software per personal computer – ero già sposato all’epoca – e un collega era nel giro della Formula Vee mi persuase a fare un’esperienza. Raccattai un Veemax ormai andato. Avevo, tra l’altro, solo un terzo dei soldi per affrontare la spesa. Feci un finanziamento, richiedendo un altro terzo del totale a un istituto di credito, quindi, persuasi mio padre a prestarmi il resto. Non ne fu completamente entusiasta. Mi diede questo consiglio che suonava, piuttosto, come un monito: - ‘Se decidi di entrare in questo mondo, sarà la tua rovina’. Mi intimò anche di non rivolgergli la parola fintantoché non gli avessi restituito la grana. Lo feci alla fine della stagione.”

 “Per il secondo anno, il millenovecentosettantatré, acquistai una nuova vettura e vinsi ovunque nel nord dell’Europa. Mia moglie, nel frattempo, mi aveva lasciato. Mi reputava soltanto un pazzo, buono solo a sperperare le proprie fortune con le corse. Non possedevo neanche l’automobile. Ogni giorno guidavo il furgoncino su cui caricavo i mezzi occorrenti per le corse, vestendo giacca e cravatta. Lavoravo di notte in azienda, quella dei computer, non per fare gli straordinari ma nel tempo libero non occupato dalle gare, per pagarmele. Vinsi il titolo europeo e reputai fossi degno di passare alla F3 l’anno successivo. Il team March mi invitò a passare dei giorni in Inghilterra con la prospettiva di un impiego. Pensavo: - ‘ Rosberg, sei grandioso, stai andando a mille!’. Bene, giunto lì mi chiesero quanto fossi ‘coperto’, quali garanzie economiche potessi dare. Il discorso si chiuse repentinamente quando risposi di essere ‘al verde’. Me ne tornai in Finlandia. Stavo imparando sulla mia pelle quali logiche e dinamiche ci fossero dietro al mondo patinato dei motori. Allora decisi di recarmi a Vienna eottenni un volante nella Formula SuperVee per Kaimann. Cinque trionfi con loro mi valsero la terza posizione nel campionato europeo. Incontrai un tizio nel mondo della moda che voleva mettere su una squadra, lo convinsi di essere a conoscenza di qualche trucco atto a potere rendere competitivo questo suo eventuale team e lui per risposta mi sganciò la grana necessaria. Per la prima volta  iniziai a guadagnare qualcosa in questa mia nuova vita. Con il primo assegno mi tolsi lo sfizio di acquistare una Jaguar X16 nuova di zecca e dei guanti da corsa ‘Les Leston’. La mia nuova squadra aveva la propria sede ad Amburgo, perciò presi la decisione di trasferirmi in Germania. Furono gli anni più difficili della mia vita. Non conoscevo una parola della lingua tedesca. Condussi una vita estremamente solitaria. Però, in compenso, vinsi il campionato tedesco e con esso un assegno che valeva tanti soldi."

Quell’anno Keke intrattenne delle relazioni lavorative che si rivelarono fondamentali. “Un venditore statunitense di automobili, un certo Fred Opert si procurò una Shadow per il gran premio svedese. La monoposto era destinata a Bertil Roos, un pilota che stava gareggiando per lui negli Stati Uniti. Non mi era passato nella testa che questo Fred potesse essere una manna scesa dal cielo, la soluzione ai miei problemi. Tuttavia, pensavo che si sarebbe potuto rivelare utile alla mia causa. Così gli scrissi una lettera. L’iniziativa avventata mi valse un sedile nella gara SuperVee di Watkins Glen. Dopodiché restammo in contatto. Nel millenovecentosettantasette mi conquistai il posto nel team di Jörg Obermoser. Non mi era concesso di guidare una March o una Chevron, però, non potevo lamentarmi: ero in F2. La vettura non era un granché (‘Autosport’ la ribattezzò ‘la fiaccona’ sottolineando come Rosberg avesse ottenuto qualche risultato di un certo livello puramente grazie al coraggio e qualche spavalderia). Fred mi fece disputare anche delle gare nella serie neozelandese e finii per vincerla. Nella stagione successiva, mi ritrovai occupato al limite del possibile: oltre al campionato della Nuova Zelanda, fui iscritto alla F2, Temporada argentina, Formula Atlantic nel nord America,  F2 giapponese e Macao: ben quarantadue gare in un anno, in cinque continenti differenti. Fred non mi pagò. Il suo lavoro consisteva nel darmi la possibilità di guidare, il mio nel trovare sponsorizzazioni in modo da riempirmi la tuta di ‘toppe’. Alla fine di quella stagione infinita, si ritornò in Oceania e vincemmo nuovamente il campionato.”

Continua ...

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Il primo assaggio di Formula Uno giunse quando Willi Kauhsen, pilota impegnato nelle gare di durata a ruote coperte, si ingegnò per comperare le giapponesi Kojima. “Le provai al Fuji, fu la mia prima esperienza in Formula Uno. L’affare con Kauhsen, comunque, non andò in porto. Nel millenovecentosettantootto Teddy Yip sbarcò in Formula Uno con la Theodore. Eddie Cheever disputò i primi due appuntamenti con loro. Nondimeno non riuscì in entrambe le occasioni a essere presente al via. Non si qualificò. A suo parere la macchina era un ‘cesso’. Io presi la palla al balzo e la etichettai come la vettura da Formula Uno più strabiliante che avessi mai visto. Fu proprio in tal modo che mi assicurai il posto, dopodiché mi imbarcai per il Sud Africa. A Kyalami ebbi il primo incontro con Teddy e il manager della scuderia, un irlandese, Sid Taylor. Diamine, che personaggio bislacco! Mi ricordo che a Hockenheim, Bernie Ecclestone alzò un polverone perché questo Sid, dopo aver lavato le sue mutande, le appese su un filo nel paddock ad asciugarle. Dunque, quella di Kyalami fu la mia prima gara in Formula Uno. Durante le prime prove libere ebbi il più grande schianto di tutta la mia carriera. Le pastiglie dei freni andarono alla malora mentre ero impegnato alla ‘Sunset’ e finii per rimanere incastrato nel filo spinato da pollaio. I paletti si infilarono nell’abitacolo e fui fortunato a non finire arrosto. Riuscirono a districare la matassa, inviluppata com’era e portarono i rottami ai box. C’era un buco gigantesco nella monoscocca. Cacciarono i resti di quella che era stata una vettura da corsa su un autotreno e li portarono dal fabbro del luogo. Venne applicato, fissandolo, un pezzo di alluminio sul punto della falla. Indi, caricarono la monoposto di nuovo sul mezzo di trasporto per portarla in pista e via ... pronta per l’uso per la seconda volta dopo essere stata rimessa insieme alla meglio. Ah, io mi qualificai. In gara il serbatoio della benzina ‘pisciava’ ma, dopotutto, non si rivelò un grande problema. Due settimane dopo ci ritrovammo a Silverstone con la pioggia e vincemmo.”

Nonostante l’abnegazione e il coraggio di Keke, la Theodore non fu capace di altre prestazioni eclatanti, fallendo le successive qualifiche. Così fu presa la decisione di accantonare la vettura e anche l’avventura della Theodore temporaneamente finì lì. Keke trovò un ripiego nella ATS di Günther Schmid. Nella prima gara con la nuova squadra, nel gran premio britannico corsosi sulla pista di Brands Hatch, in gara riuscì a risalire la china dalla ventiduesima posizione, occupata in griglia di partenza, fino a una sorprendente quarta piazza, abbandonata forzatamente per la rottura dei braccetti della sospensione posteriore. “Quegli ‘assorbenti’ del cacchio si staccarono dal telaio. Probabilmente avrò spinto troppo sui cordoli”. Nel frattempo Teddy Yip si assicurò una Wolf vecchia di un anno, la dipinse bianco-rossa e la rimise in pista per il resto della stagione nei gran premi fissati in Europa. “A fine stagione perse interesse in quel progetto e io tornai alla ATS”.

(omissis)

I rapporti tra Keke e Fred Opert non terminarono. L’avventura in Formula Uno non era la sola occupazione del pilota, visto che, al contempo era impegnato anche nella F2 in Europa, Formula Atlantic negli USA e F2 argentina e giapponese. Viaggiò in aeroplano per quattrocentoventi ore quell’anno e, in aggiunta a queste, un numero non quantificabile di ore di attesa negli aeroporti. In uno qualunque dei fine settimana di quell’anno Rosberg era impegnato in una qualche corsa in giro per il mondo. “Avrei sperato in un ingaggio decente nella ATS in vista del millenovecentosettantanove ma Schmid bollò le mie prestazioni lavorative come ‘troppo costose’ (mi ricordo di aver chiesto mille dollari per gara). D’altronde, a quei tempi il livello di paga per i piloti da fondo griglia si aggirava a quella cifra. Intavolai dei colloqui, delle trattative, con tutti le scuderie possibili ma non ne ricavai nulla. Allora emigrai in America firmando con la scuderia di Carl Haas nel programma Can-Am. Due settimane più tardi, mentre ero impegnato in una gara di F2 in Giappone, Haas mi chiamò per comunicarmi la sua volontà di recedere dal nostro contratto, un licenziamento, ecco. Aveva deciso di puntare su Jacky Ickx, perché Jackie Stewart mi aveva bollato come ‘troppo irruento’. Avevo dalla mia i rapporti con Fred Opert. Suo fratello esercitava la professione di avvocato  a Boston e mi consigliò di mandarlo al diavolo e intentare una causa legale per via della presunta capacità del contratto di dispiegare ancora la propria efficacia giuridica. Cosa che feci. Per farlo, però, dovevo continuare a correre e guadagnare: l’ausilio pervenne da Paul Newman, il quale mi ingaggiò sempre per competere in Can-Am. Lui, al tempo, metteva in pista le sue macchine separatamente da Carl, non essendo ancora legato a quest’ultimo da rapporti di collaborazione. Inoltre, proprio mentre i miei rapporti con Haas andavano deteriorandosi, Ron Dennis mi offrì il volante della March F2 ‘ICI’. Guy Edwards, al timone della ‘ICI’ e anche mio buon amico, mi mise sul piatto dodicimila dollari per presenziare agli appuntamenti di Hockenheim e Nürburgring. In seguito Guy mi telefonò e attaccò con il dire: - “Scusami Keke, non posso pagarti”. Io gli risposi: - “Brutto pezzo di ... sai che sono senza lavoro e sei a conoscenza del fatto che la mia volontà di disputare queste gare è stata legata unicamente all’opportunità di un qualche guadagno”. Mi ero spaccato le ossa in gara per loro senza ricavarne nulla. Anni dopo venni a sapere che la scuderia ‘ICI’ mise effettivamente a disposizione del denaro per quei posti ma, al contempo, il malloppo venne destinato ad essere previamente impiegato in qualche oscura operazione con a capo Guy. Si agì in modo da non far saltare fuori quegli affari. Comunque, tornando a noi, vinsi entrambe le batterie di Hockenheim e sul vecchio Nürburgring feci segnare la pole distaccando il pilota qualificatosi dietro di me di ben quattro secondi e mezzo. ‘Autosport’ scrisse: ‘L’incredibile prestazione in qualifica da parte di Rosberg pone la seguente questione: quando mai potrà arrivare per quest’uomo la possibilità di farsi valere regolarmente con una vettura di prima fascia?’. Nel corso della gara, tra l’altro bagnata, la valvola a farfalla del motore si inceppò e andai a muro”.

Contemporaneamente in Can-Am Keke andava dimostrandosi dannatamente veloce. Fece segnare la pole position in tutti gli appuntamenti, ad eccezione di uno soltanto. Il tutto veniva compensato dalla inaffidabilità del motore, ragione per cui riuscì a vincere soltanto una volta. “Bei tempi quelli in cui ero impegnato in Can-Am. Stravedevo per quelle vetture ingombranti, andavo d’accordo con Paul Newman e mi piaceva l’ambiente e il pubblico. Promisi a Paul che avrei concentrato le mie attenzioni su quella serie e che non avrei fatto ritorno in Formula Uno ma capitò che James Hunt, dopo il gran premio di Montecarlo, lasciò la Wolf. Peter Warr (al tempo team manager della Wolf) si mise in viaggio per raggiungermi a Mid-Ohio, dove ero impegnato a correre, per offrirmi il posto. Dovetti cercare le parole giuste per scusarmi con Paul: - ‘Sai, ho un problema. Credo si tratti di un’opportunità irripetibile per me. Desidererei prenderla in considerazione sul serio’. Lui rispose: - ‘Capisco il tuo cruccio. Prenditi la libertà di decidere il meglio per te’. Onorai, comunque, i miei impegni contrattuali in Can-Am ritrovandomi a dover fare la spola avanti e indietro per il resto della stagione. Ero praticamente un cadavere ambulante alla fine dei giochi.”

A Laguna Seca ebbe un incidente in prova a seguito dell’esplosione di uno pneumatico. Rimase intrappolato nella vettura riportando una commozione cerebrale e due costole incrinate, in grado, però, di prendere il via il giorno dopo all’interno di una vettura fattasi prestare. “Ero conciato male. I meccanici lavorarono duramente per tutta la notte acciocché l’altra vettura potesse essere approntata a dovere. Io non potei trovare la faccia tosta di recarmi ai box e comunicare loro la mia intenzione di non mettermi alla guida per via degli acciacchi. Mi ero infortunato ai polsi e incontravo difficoltà nel maneggiare il volante: loro lo avvolsero con il nastro adesivo con la colla da ambedue i lati in guisa da permettermi di fare meno sforzi”. Partito dal fondo, terminò la corsa in sesta posizione. “Fu un’esperienza terribile fare la ‘doppia vita’: spesso e volentieri sarei tornato da una gara di Can-Am e, una volta, atterrato a Heathrow avrei viaggiato per prendere parte a una sessione di prove a Silverstone con la monoposto da Formula Uno, poi, ancora mi sarei spostato per raggiungere il luogo del successivo gran premio e,infine, avrei riattraversato l’Oceano Atlantico per gli appuntamenti della Can-Am in programma. Il tutto ripetuto più volte.Viaggiavo da solo, facendo il giro dei vari alberghi: questi ragazzini di oggi hanno il rispettivo seguito di persone che si sposta assieme a loro. La Wolf non era certamente competitiva quell’anno e dovetti farmi il c**o in macchina. Non voglio, però, che mi si compianga: avevo la possibilità di lavorare con Harvey Postlethwaite, Peter Warr, Jo Ramirez, tutti nomi di grido e, per giunta, gareggiavo in Formula Uno. Ci sono posti peggiori dove passare la propria vita. Più tardi Walter Wolf vendette e la scuderia fu rilevata da Fittipaldi. La fusione portò ad aumentare il numero delle vetture a disposizione, ora due, con Emerson alla guida dell’altra. Terminai a podio nella primissima gara in cui la scuderia assunse questa nuova configurazione, avvenne in Argentina. Quindici giorni più in là, nell’evento di casa per Fittipaldi, a Interlagos, rimasi bloccato dietro alla sua vettura. Visto che stava facendomi ostruzione all’interno optai per la decisione di passarlo all’esterno di una curva veloce che girava a sinistra. Si inalberò parecchio: lo smacco fu trasmesso in televisione di fronte al suo pubblico, la stampa unanimemente si meravigliò dell’accaduto poiché, nell’occasione, l’eroe locale aveva subito un sorpasso bruciante. Mi giurò che avrebbe avuto la mia pelle e, infatti, me la fece pagare. La mattina dopo a San Paolo organizzò una riunione in seno alla scuderia e convocò i piani alti, Peter Warr e suo fratello Wilson. Anche io fui invitato in veste di imputato. Incominciò a sbraitare verso di me e fu a quel punto che Wilson lo calmò: - ‘Stai seduto Emerson, abbiamo visto la diretta televisiva e penso proprio che tu debba farla finita con questa sceneggiata’. Santa miseria, era stato proprio il fratello a pronunciare queste parole.”

Per la stagione millenovecentoottantuno Fittipaldi si fece da parte.

“Il mio nuovo compagno di scuderia era Chico Serra, diventammo buoni amici. Perduravano i problemi tecnici e i fondi erano limitati. Al termine della stagione presi la decisione di regalarmi una vacanza in California, prendere lezioni di volo e riposare la mente staccando dai pensieri lavorativi. Jeff Hazell della Williams mi chiamò al telefono: - ‘Guarda, non farti strane idee in merito ma ti annuncio che Alan Jones ha deciso di ritirarsi. Ti piacerebbe fare un salto quaggiù in Europa, al Paul Ricard per delle prove?’. Io mi affrettai a rispondergli: - “Verrò sicuramente. Mi ci reco a nuoto, se necessario’. Contattai un avvocato londinese dei cui servigi avevo avuto bisogno ogniqualvolta fosse stata in ballo la materia contrattuale. Gli esposi il desiderio di liberarmi dal contratto firmato con Emerson senza incorrere nella formulazione di responsabilità contrattuale a mio carico, dovendo, di conseguenza, andare incontro al pagamento di penali o risarcimento danni per inadempienza delle prestazioni da me dovute. Gli dissi anche che lo stesso Emerson mi doveva retribuire per una parte residua, non molto a dire la verità, circa duemilatrecento dollari. Fortunatamente ero stato saggio perché avevo ricordato a Emerson in uno scritto di mio pugno la faccenda del mancato pagamento. Inoltre non avrebbe potuto negare ciò che mi era dovuto, in quanto avrei potuto procurarmi la prova documentale scritta, perché sui libri contabili era scritto nero su bianco. Atterrai a Heathrow, mi rimisi in contatto con il mio legale, il quale mi annunciò: - ‘E’ fatta, puoi considerarti finalmente libero dai tuoi previi impegni contrattuali’. Fu la volta di andare a fare il calco del sedile Williams e parlai a Frank in questa maniera: - ‘So che si tratta soltanto di prove, non mi faccio illusioni, ci tengo a farti sapere, però, che sono sul mercato’. La mattina successiva ci recammo al Ricard, loro liquidarono in fretta alcuni altri piloti, io uscii alle otto di mattina e abbassai il tempo del giro veloce sulla pista. Tornati in Inghilterra fui invitato a casa di Frank, ove firmai il contratto: duecentocinquantamila dollari risultò essere l’ingaggio per la mia prima stagione. Ero, inoltre, libero di firmare contratti di sponsorizzazione con chiunque avessi voluto. Si può dire che stessi guadagnando bene all’epoca. La mia carriera in Formula Uno, finalmente, iniziava a prendere una piega seria. La faccenda stava diventando più professionale e io presi la decisione di allenarmi adeguatamente. Pensavo che allenarmi nella corsa per tre quarti d’ora al giorno potesse essere sufficiente, odiavo l’idea di doverlo fare ma era anche per questo che stavo venendo pagato. A dispetto di tutto ciò non smisi di fumare.

Continua ...

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 “La mia prima stagione in Williams, il millenovecentoottantadue, fu inverosimile, accadde di tutto. La generazione di oggi non riuscirebbe neanche a immaginarsela. Nella prima gara – eravamo in Sud Africa, a Gennaio – ebbe luogo lo sciopero dei piloti che, a mio dire, fu una scelta di cattivo gusto. Avremmo dovuto battere altre vie per far valere i nostri diritti, nonostante  Bernie ne fosse il bersaglio. Tutto partì da Niki che, in procinto di rimettersi in gioco dopo il ritiro, desiderava calamitare su di sé le attenzioni e salire alla ribalta. Lauda stava portando avanti questo progetto assieme a Pironi, il rappresentante della GPDA. Io non ne ero membro, perché volevo occupare il tempo libero con ben altri impegni e pensieri. Non mi andava di stare a sentire questi signori dibattere e litigare fra loro. Non si raggiungeva mai l’uniformità di giudizio sulle soluzioni da adottare in relazione alle problematiche affrontate e molti neanche avevano dimestichezza con gli argomenti affrontati. Comunque, passai la notte barricato nell’albergo di Johannesburg e, d’altronde, lo feci perché mi ci trovai assieme a tutti quanti gli altri, visto che fummo ingannati con la scusa dell’autobus che ci avrebbe portati ad una riunione. Di sicuro, un incontro ci avrebbe giovato ma non ci saremmo aspettati che la loro intenzione fosse di ‘chiuderci a chiave’ per tutta la notte. Ecco, per Niki e Pironi il migliore modo di agire fu questo ...”

“Venne il tempo di recarsi a Rio dove ci aspettò un caldo torrido e un’umidità eccessiva. Tutti riscontrarono delle difficoltà. Riccardo Patrese perse i sensi dentro l’abitacolo e andò in testacoda, Piquet vinse e svenne sul podio. Io terminai la gara in seconda posizione e guadagnai i punti relativi. Poi, presero la decisione di squalificare me e Nelson, essendo stata riscontrata la presenza di serbatoi di acqua atti a raffreddare i freni sulle nostre vetture e, certamente, anche a far sì che il peso delle nostre macchine potesse eccedere la soglia massimale legalmente consentita. Carlos Reutemann fu il mio compagno di squadra quell’anno. Era una persona molto carismatica, alla terza sua stagione in Williams: in teoria, la ‘stella’ fra noi due. Lo battei in qualifica tanto a Kyalami che a Rio e, proprio in Brasile, si ritrovò alle strette. Sebbene fosse un tipo furbo, penso si aspettasse di perdere il confronto contro di me. La stessa notte della domenica della gara annunciò a Frank la sua intenzione di ritirarsi. Arrivai secondo a Long Beach alle spalle di Lauda, quindi, giunse il tempo di correre a Imola per il quarto appuntamento del mondiale ma le scuderie della FOCA boicottarono l’evento. Eravamo arrivati al mese di Aprile e c’erano già stati lo sciopero, le squalifiche, il boicottaggio e il ritiro di Reutemann!”

Keke ci diede sotto e iniziò ad accumulare punti su punti: secondo a Zolder, terzo a Zandvoort, mentre a Brands Hatch guadagnò la pole a scapito di Brabham e Ferrari, equipaggiate con i motori turbo. Tuttavia, non fu in grado di prendere il via dalla posizione raggiunta a seguito delle qualificazioni, a cagione di problemi riscontrati durante il giro di riscaldamento. Dopo essere partito dal fondo, al termine della prima tornata, già otto vetture si ritrovarono a doverlo inseguire e, nel corso della tredicesima, fece il proprio ingresso in zona punti. Venne costretto al ritiro in virtù della bassa pressione del carburante. Prima di affrontare Hockenheim, Didier Pironi guidava la classifica piloti, Keke era soltanto in quinta posizione. Il sabato mattina Didier ebbe l’incidente che pose fine alla sua carriera. La vittoria su questo circuito veloce, adatto ai motori dalla maggiore potenza, andò ai ‘turbo’ ma Keke ebbe modo, comunque, di salire sul gradino più basso del podio. Fu la volta del gran premio austriaco, ove Rosberg e de Angelis furono protagonisti del testa a testa fino al traguardo. Vinse la Lotus e il distacco cronometrato ufficialmente decretò che a separare le due monoposto alla linea del traguardo fu un margine di soli cinque centesimi di secondo. “Il migliore collega incontrato in Formula Uno fu, di sicuro, Elio. Mi sono sempre chiesto che cosa sarebbe potuto accadere se al posto di Elio ci fosse stato qualcun altro. Forse, mi sarei comportato in maniera differente nell’affrontare l’ultima curva di quel gran premio, una piega del tracciato molto veloce. Elio ebbe la sensata idea di bloccare l’interno e salvaguardarsi da un mio attacco. Avrei potuto tentare all’esterno ma ci sarebbe stata l’eventualità di trovarsi di fronte il muretto al posto dell’asfalto della pista. Fu la sua prima vittoria, io, d’altro canto, sentivo che per la mia i tempi fossero maturi. La aspettavo da un momento all’altro. ”

Arrivò quattordici giorni dopo il duello in Stiria, a Digione, e a farne le spese fu la Renault di Alain Prost, distaccato di quattro secondi. Ciò significò per Keke l’aver raggiunto la testa della classifica piloti. La vittoria del campionato divenne una realtà concreta dopo il quinto posto ottenuto nella gara finale di Las Vegas. Nel millenovecentoottantuno Rosberg non venne messo in condizione di mettere in cascina neanche un punto, subendo, fra l’altro, l’onta di aver fallito cinque qualificazioni. Al contrario, un anno più tardi, poté fregiarsi del titolo di campione del mondo.

“Salii agli onori della cronaca dal nulla. Accadde tutto così velocemente che la mia fama e le possibilità di guadagno non erano pari al mio nuovo ‘rango’, quello di campione del mondo della Formula Uno. Ero uno sconosciuto ai più. Così ci dovetti lavorare su. Lo feci senza fermarmi un attimo, dovevo costruire il mio personaggio: talk shows, interviste, comparsate un po’ ovunque in Europa, prestai la mia faccia e il mio nome per pubblicizzare nuovi prodotti, continuando, nel contempo, a fare da rappresentante per quelli già presenti per non farli restare delusi. Partecipai anche a ‘A question of sport’.

 “Il millenovecentoottantatré fu il mio anno di grazia. Sebbene i motori turbo la facessero da padrone, conquistai il diritto di partire davanti a tutti a Rio, all’inizio della stagione. Mi risentii molto quando Ken Tyrrell mi redarguì: - ‘Devi aver usato un carburante ‘speciale’ per permettere a quella roba là di volare fino alla pole’. La mia risposta fu pronta: - ‘Se dici così, è solo perché non conosci a fondo Frank Williams’. Proprio il tizio capace di farsi squalificare per aver barato con dei pallini di piombo nella benzina doveva essere quello ad avere la lingua lunga! Frank non ricorrerebbe a degli espedienti del genere, non è nel suo stile e la stessa considerazione valga per Patrick Head. Ci metterei una mano sul fuoco. A parte ciò, in gara la mia Williams prese fuoco durante il rifornimento. Saltai fuori  dalla macchina – le fiamme avevano raggiunto il mio casco e, addirittura, bruciarono i miei baffi – e la mia unica preoccupazione, in quei momenti, fu sapere se il mio sedere stesse andando a fuoco anch’esso, in modo da capire se fosse il caso di rotolarsi a terra. Ad un certo punto Patrick mi prese per il collo e mi urlò in faccia: - ‘Monta su quella fottuta macchina!’. Ravviarono il motore e ritornai in pista in nona posizione, a un giro di ritardo. A dispetto di tutte le magagne, fui capace di agguantare la seconda posizione  conservandola fino al termine della gara. Un paio di ore dopo, come sapete, mi squalificarono per aver rimesso in moto il motore ed essere stato spinto. Rio fu la mia bestia nera: collezionai due squalifiche di fila nelle prime due volte che si corse lì.”

La Williams di Rosberg, quell’anno, era l’unica vettura con motore aspirato che tenesse testa ai turbo. A Monaco tutto andò per il meglio. “La pista era bagnata fin da quando calcammo la griglia di partenza. Dissi alla squadra: - ‘Ho intenzione di correre con gli pneumatici lisci’. La proposta fu accolta. Non so come ma avevo molta aderenza, addirittura, prima dell’inizio del secondo giro mi ritrovai in testa. Quando la pioggia cessò ero già al sicuro.”

Un altro piazzamento di rilievo fu il secondo posto a Detroit. “Il mio stile di guida non è mai stato molto pulito, il che, probabilmente, spiega perché fossi veloce nei cittadini. Nonostante tutto non ho fatto incidenti spettacolari, per quello ho dovuto attendere il primo test in McLaren ...”. Per il millenovecentoottantaquattro la FW09 ebbe modo di montare un motore turbo, quello della Honda. Keke, ancora una volta, terminò in seconda posizione a Rio de Janeiro ma la vettura si rivelò meno affidabile e più difficoltosa da tenere in pista: - “ Il motore non andava, il telaio neanche. Non fu un annata facile per Patrick. Quantunque avesse le cognizioni esatte e l’esperienza per far funzionare il pacchetto, si trovò in difficoltà nel confrontarsi con il metodo di lavoro della Honda. Uno dei difetti riscontrati fu la mancanza di rigidità del motore. In Austria, per la prima e unica volta in carriera, dovetti alzare bandiera bianca. Rientrai ai box e dissi a Patrick: - “Non riesco a tenerla a bada. Non ho intenzione di andare incontro a quello che potrebbe risultare il più grande ‘botto’ della mia vita, qui le curve sono veloci e la macchina va per le sue’. Patrick mi diede ragione senza discutere, sapeva che sarei stato capace di farmi in quattro se necessario. In più, con Honda, la nostra velocità era in balia del caso, delle volte succedeva di dover fronteggiare una cronica lentezza e altre volte diventavamo prestanti. Non eravamo in grado, affatto, di incrementare la potenza, semplicemente ce la ritrovavamo improvvisamente, il che non fu di aiuto, dal momento che la maneggevolezza della macchina non era da buttare del tutto.”

Continua ...

Modificato da Elio11
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  • 2 weeks later...

“Nel millenovecentoottantatré e millenovecentoottantaquattro il mio compagno di scuderia era Jacques Laffite, per il millenovecentoottantacinque Frank mise sotto contratto Nigel Mansell. Mi sentii offeso dal momento che Frank, prima di prendere la decisione, non ne discusse con me. Non mi importava sapere se il tizio di turno sarebbe stato veloce o lento, non era questo il punto. In Williams mi trovai molto bene, formammo una squadra affiatata e in quell’occasione non fu mia intenzione avvelenare l’ambiente. Elio de Angelis, già compagno di squadra dell’inglese, mi mise in guardia sul tipo di carattere : – ‘E’ un tipo infido’,  mi  confidò *. Provai a intavolare l’argomento con Frank ma non ne volle sapere. Allora contrattaccai facendolo edotto che avrei preso in considerazione l’ipotesi di lasciare la squadra. ‘Non puoi farlo, sei sotto contratto’, fu la sua risposta schietta. D’altronde aveva ragione, così accettai la decisione subendola. Però, avevo già in mente quale sarebbe stato il mio futuro a lungo termine. Mi sarei ritirato nel giro di due anni. Intavolai le trattative con Ron Dennis affinché mi desse l’opportunità di guidare per la McLaren in quella che sarebbe stata la mia ultima stagione. I primi contatti presero il via abbastanza presto rispetto ai tempi normali. Comunque, quando Nigel, alla fine, arrivò, non ebbi i grossi problemi che avevo paventato. Andavamo d’accordo anche se non fummo mai grandi amici. In compenso, lavoravamo bene insieme. Lui faceva la sua parte di lavoro, io la mia e i mesi trascorsero armoniosamente”. Keke vinse nuovamente un gran premio ‘cittadino’ a Detroit, e terminò i suoi quattro anni in Williams con la vittoria nel gran premio finale ad Adelaide, un’ altra corsa movimentata.

 “Torniamo a parlare del mio passaggio in McLaren. Mi ero fermato al punto in cui lasciai la Williams. Ron pagava bene ed ero rimasto piacevolmente colpito da tutta l’organizzazione. Nel primo giro delle primissime prove con il mio nuovo team, feci un incidente. Ci trovavamo a Rio. Accadde affrontando la curva veloce alla fine del rettilineo. In mezzo vi era un dosso che con la Williams avevo sempre affrontato senza preoccuparmene più di tanto. Persi il controllo della mia McLaren e in un battibaleno mi ritrovai tra i paletti della recinzione. Fu a quel punto che John Barnard decise di emarginarmi. Da quel punto in poi, fu come se avessi recato in fronte un contrassegno, allo stesso modo in cui si esegue la marchiatura a fuoco sul sedere del cavallo. Per tutta la durata della stagione mi arrabattai con problemi di sottosterzo e nessuno sembrava in grado di fare qualcosa per risolvere i miei problemi. Diciannove anni dopo, in occasione della festa di compleanno per i sessant’anni di Patrick Head, mi sedetti vicino a Barnard e quella sera ci intrattenemmo assieme per molto più tempo rispetto a quanto avessimo fatto durante un anno intero. Si ricordava dei miei problemi: –  ‘Ti lamentavi del sottosterzo, se ben rammento’ e io gli rinfacciai: – ‘Già, come mai non te curasti affatto?’ ‘Ero in procinto di passare alla Ferrari e i miei pensieri erano altrove. Semplicemente non avevo voglia di risolvere nuovi grattacapi’.  La McLaren poteva contare su altri elementi molto professionali al pari di Barnard, i motoristi Steve Nichols e Tim Wright, per esempio. Poi c’era Alain Prost con cui mi trovai a mio agio. Qualche buona prestazione, comunque, ne venne fuori: a Montecarlo mi qualificai nono per i famigerati problemi di sottosterzo, però, in gara terminai in seconda posizione. Non mi piaceva il modo che la Formula Uno stava battendo in quel periodo a riguardo della benzina: avevamo soltanto centonovantacinque litri disponibili per la gara e le segnalazioni nell’abitacolo erano sempre errate. A Imola dovetti ritirarmi per essere rimasto ‘a secco’. Anche Alain ebbe quasi la stessa sorte ma lui fu bravo a risparmiare fino a tagliare il traguardo in prima posizione. Forse, il suo stile di guida era meno esoso rispetto al mio sotto questo punto di vista. Non trovavo ragione di continuare a correre in Formula Uno, stava diventando una competizione nella quale per vincere bisognava risparmiare carburante oculatamente. Era un aspetto che non aveva niente a che fare con l’idea di sport motoristico.”

“Ero al Paul Ricard quel Maggio in cui capitò l’incidente. Rimasi spiazzato. Mi recai all’ospedale di Marsiglia con la sorella e uno dei due fratelli di Elio. Dopo la visita, dovetti tornare al circuito per proseguire la tabella di marcia con le prove. Al ritorno ero in macchina con Nigel. Nessuno di noi due aveva voglia di parlare, fintantoché  Nigel proruppe,  rimanendo assorto nei suoi pensieri – ‘Quanto ancora ci resta da vivere? Chissà ... dopotutto, chi mai può saperlo ...’ Quei pensieri mi lasciarono basito e pensieroso, non li scorderò mai.

“Annunciai pubblicamente la mia intenzione di smettere quando ci trovavamo in Germania, nella mia patria adottiva. Dopo la morte di Elio non fu difficile prendere la decisione definitiva. La mattina del sabato feci le miei dichiarazioni e nel pomeriggio qualificai la mia vettura in pole. Non mi andava giù di essere ricordato come ‘bollito’ a fine carriera. Sarebbe stato gratificante andare anche a vincere la corsa, ma in gara, dopo essere stato in testa quasi fino alla fine, sul più bello quella dannata benzina mi fregò di nuovo.”

 “Il mio ultimo gran premio lo disputai ad Adelaide. Quando si arriva alla propria ultima gara in carriera il miglior risultato è uscirne vivo tutto intero. Anche se non si ha mai avuto paura precedentemente, al momento della tua uscita di scena non puoi esimerti dall’averne. Condussi dal settimo al sessantaduesimo giro, con ventotto secondi di vantaggio. Poi, in piena accelerazione sul rettilineo a trecento chilometri orari, ci fu un boato sordo. Pensai fosse stato il cambio a dirmi addio. Così spensi la macchina, parcheggiai e scrutai il fondo vettura: olio non ce ne era, fu strano. Mi incamminai e me ne andai. Non riuscii a capire la causa del ritiro, uno dei due pneumatici posteriori sgonfio, fino a quando un commissario di pista mi rese chiarì la faccenda. Avrei potuto raggiungere i box, cambiare la gomma, magari vincere la mia ultima corsa. Sentii una grande delusione per l’occasione mancata. Poi, però, analizzando la vettura trovarono entrambi i dischi dei freni anteriori ‘andati’, quindi, un altro giro o, al massimo, due e sarei andato a muro comunque. Alla fine dei conti non fu così tremendo doversi ritirare”.

(omissis)

“Nel millenovecentoottantanove ebbi una chiamata da Piero Lardi : – ‘Che cosa ne diresti se ti offrissimo di guidare per la Ferrari?’ Ci pensai su e risposi: - ‘Sì, si tratterebbe di un progetto affascinante’. Allora, mi rispose : – ‘Ottimo, fatti trovare pronto per delle prove qui da noi’. ‘Se volete che guidi per voi, lo farò. Non mi si prenda in giro, però, perché non mi scomodo solo per rassicurarvi sul fatto che io sia ancora in grado di guidare una Formula Uno’.Volevano vedere quanto ancora fossi motivato. Per questo non se ne fece nulla. Un anno più tardi, ero sulla mia barca in Sardegna e ricevetti una chiamata, stavolta, da Jean Todt, per conto della Peugeot. Voleva partecipassi alle gare di durata con i prototipi. Ho sempre detto che soltanto i bagni hanno le porte girevoli, si entra e si esce a piacimento, tuttavia, il progetto sembrava serio e decisi di tentare una nuova avventura. Il millenovecentonovanta ci servì per sviluppare la vettura e facemmo una stagione intera l’anno seguente. Todt si dava da fare al meglio ma vi era una fazione francese troppo influente all’interno della squadra, Jabouille e Alliot e tutto il resto. Mi misero in coppia con Yannick Dalmas, un tipo non troppo veloce, non avrebbe fatto fuoco e fiamme. Nonostante tutto, vincemmo sia a Magny-Cours che in Messico. Quelle vetture dotate di un motore V10 erano molto veloci. Stavo effettuando delle prove a Monza e la vettura esplose a trecento chilometri all’ora in rettilineo. Credevo che qualcuno ci avesse piazzato un ordigno e, addirittura, di stare sul punto di morire.

Qualche valvola dell’iniettore si era allentata dando modo al carburante di riversarsi sotto la copertura del motore. L’esplosione lacerò le staffe del sedile strappandole dal telaio in fibra di carbonio. Vedi, quando sei un po’ avanti con l’età, per giunta tornato in pista dopo esserti ritirato una prima volta, questi accadimenti ti fanno riflettere. L’ultima gara si corse sul circuito di Autopolis, in Giappone: sedici tonnellate di merci, dieci del vino rosso migliore, il nostro chef personale e, tutto questo, per circa trecento spettatori soltanto. Riflettei: – ‘Che ci faccio qui? Per i soldi?’ Solo per del denaro ed era vero. Non era più una buona ragione per continuare a correre. Ecco perché abbandonai tutto nuovamente.”

* Nota aggiunta dal traduttore: i rapporti fra Mansell e de Angelis si sarebbero appianati nel corso della stagione millenovecentoottantacinque.

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  • 2 months later...
  • 2 years later...
Il 5/9/2017 at 10:45 , mau65 ha scritto:

Keke Rosberg fu il primo ad avere una grande idea....

Nel 1982-83 propose di colorare il bordo delle gomme per far capire al pubblico che mescola stesse usando il pilota a bordo...

Era trent'anni avanti....:)

 

Mi era sfuggito questo post: così, però, lo facevi capire anche agli avversari.

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  • 1 month later...
Il 17/3/2020 at 13:50 , Carlomm73 ha scritto:

 

Mi era sfuggito questo post: così, però, lo facevi capire anche agli avversari.

Mi sa che le altre squadre ne erano sempre già al corrente.

Ecco una bella vittoria di Rosberg, a Monaco '83, con la Williams aspirata contro i turbo:

 

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  • 3 months later...
  • 1 year later...

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