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Jose Froilan Gonzalez


Luke36

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Su autorizzazione di sundance76, posto i suoi scritti, interessantissimi da leggere e gustare, certo che sia buona cosa per il nostro forum. Grazie Sun !

Ho pensato che José Froilan Gonzalez si meriti un topic autonomo - by sundance76

Ferrari 375 - G.P. d'Inghilterra 1951 (Silverstone):

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Maserati A6GCM - G.P.di Francia 1953 (Reims)

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Ferrari 553 - G.P. di Francia 1954 (Reims):

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Modificato da Luke36
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Posto il giudizio di Enzo Ferrari su Gonzalez, che in qualche punto non mi trova d'accordo:

"Froilan Gonzalez era compatriota di Fangio, ma non c'era affinità  tra i due, anzi, in un certo senso Gonzalez era il tipo opposto. Il Cabezòn, come tutti lo chiamavano, era proprio il contrario della continuità , della regolarità  di Fangio. Alternava periodi felicissimi di velocità  inconsuete, addirittura sconosciute, ad allarmanti pause. Quando si trovava in testa rallentava fino a farsi inspiegabilmente superare, quando inseguiva era un demolitore di avversari. Era dunque l'opposto di Alberto Ascari, sotto questo aspetto. E io confesso di non aver mai capito perchè quest'uomo rappresentasse una così straordinaria sinusoide nel comportamento di gara. Né ho mai capito perchè corresse per affaticarsi tanto, sudare tanto, preoccuparsi tanto. Debbo concludere però che è stato un pilota coraggioso, volitivo, generoso. Non posso dimenticare ch'egli ha offerto alla Ferrari delle soddisfazioni magnifiche, sia a Silverstone, quando per la prima volta riuscì a battere le squadre dell'Alfa Romeo (1951) e della Mercedes (1954), sia in Argentina, quando sconfisse per due volte consecutive ancora le Mercedes, sia a Le Mans, in una 24 ore da cardiopalmo. Vive a Buenos Aires, si occupa di automobili e di tanto in tanto trova il tempo di attraversare l'oceano per tornare a vedere la Ferrari e salutare "don Enzo"."

Ecco: la continuità .

Il Drake dice che Gonzalez fosse un campione di discontinuità . Ma alcuni giornalisti ed esperti affermano invece che Froilan non fosse poi davvero così incostante.

Ho provato a dare un'occhiata alle statistiche, che non dicono tutto, ma per certi versi sono indicative.

Gonzalez arriva alla Ferrari nel GP di Francia 1951, in gara cede la macchina al caposquadra Ascari ed arrivano secondi al traguardo.

Già  alla seconda corsa, quel famoso GP d'Inghilterra, Gonzalez firma la prima pole e soprattutto la prima vittoria per la Ferrari, battendo Fangio (che fu il mentore di Froilan) e l'Alfa.

Poi c'è il G.P. di Germania al Nurburgring: l'argentino arriva 3°.

Nelle due gare finali, Italia e Spagna, arriva entrambe le volte 2°, mentre il suo caposquadra Ascari perde il titolo sul filo di lana contro Fangio.

Quindi, in questa prima stagione a Maranello, arrivato a Mondiale già  iniziato, Gonzalez ottiene una vittoria, tre secondi posti e un terzo posto.

Sono sei podi su sei gare. Arriva 3° nel Mondiale a un punto dal compagno Ascari.

Mi sembra quindi che abbia palesato affidabilità  e continuità , oltre alla nota irruenza e spettacolarità  di guida.

Poi, non so per quale misterioso motivo, nel 1952 Gonzalez disputa solo un GP con la Maserati, arrivando 2° a Monza.

Anche nel 1953 è con la Maserati. Diversi piazzamenti, sul podio e in zona punti, con il sesto posto finale in Classifica Mondiale.

Nel 1954 torna alla Ferrari, correndo sia il Mondiale Piloti sia il Mondiale Sport.

Vince nuovamente, dopo tre anni, il G.P. d'Inghilterra a Silverstone, stavolta battendo lo squadrone Mercedes, 2° in Svizzera, 2° in Germania (con Hawthorn), 3° in Argentina col gpv, 3° in Italia (con Maglioli) col gpv, 4° in Belgio (ancora con Hawthorn).

Tutti piazzamenti che a fine stagione lo pongono al 2° posto in Classifica, dietro solo alla fortissima Mercedes del grande Fangio.

Altro che incostanza.

In quel 1954, vince anche 4 corse Sport, tra cui una drammatica 24 ore di Le Mans, battendo le fortissime Jaguar.

Dall'anno dopo, limita le sue presenze al GP d'Argentina (gara di casa) e poco altro.

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Col tempo ho verificato che le "sentenze" di Ferrari spesso non avevano riscontro reale, ma erano originate da certe sue convinzioni personali, alla cui formazione contribuivano i suoi vari collaboratori sulle piste che gli riferivano gli avvenimenti, spesso "filtrati" e "aggiustati".

Un'altra foto di Gonzalez su Maserati al GP di Francia 1953 a Reims:

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Da un'altra serie di fascicoli (quattro) dal titolo "Ferrari racconta" usciti con la Gazzetta dello Sport nella primavera 1988, ecco un articolo in cui Gonzalez racconta l'andamento del G.P. d'Inghilterra 1951.

Con la solita cliccata potete ingrandire e leggere facilmente:

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Il palmares di Gonzalez non si limita alle due vittorie nei G.P. d'Inghilterra 1951 e 1954.

All'inizio della stagione 1951 egli non faceva ancora parte della squadra di Maranello, ma la squadra nazionale argentina, supportata dal Presidente Peron, gli mise a disposizione una Ferrari 166C con cui Froilan battè la Mercedes 3000 (una di quelle guidate da Caracciola e Lang dominatrici nel 1939) guidata da Fangio in due gare argentine, il GP "Presidente Peron" e il GP "Eva Peron" entrambi sul circuito di Buenos Aires.

Dopo essere stato ingaggiato (anche grazie a queste vittorie) dalla Ferrari e dopo aver ottenuto la storica vittoria in Inghilterra, Gonzalez vince anche il G.P. di Pescara (quello che prima della guerra era la prestigiosa "Coppa Acerbo") sull'impegnativo circuito abruzzese di ben 25 km. Poi arriva 2° nel GP di Bari.

Quindi una stagione 1951 ad alto livello per Froilan, oltre ai due secondi posti in Italia, Francia e Spagna e il terzo in Germania.

Come detto, nel 1952 partecipa a un solo GP del Mondiale, arrivando 2° a Monza col giro veloce su Maserati.

Dopo un altro anno con la Maserati, nel 1954 torna a Maranello.

Si può dire che il 1954 è il suo miglior anno: vince, oltre al G.P. d'Inghilterra valido per il Mondiale, anche l'International Trophy (sempre a Silverstone), poi il G.P. di Bordeaux e il G.P. di Bari.

Con le Sport, vince a Le Mans, a Silverstone e in Portogallo.

Quindi nel 1954 vinse ben 4 GP di F1 (uno valido per il Mondiale) e 3 corse Sport.

Inoltre, grazie anche a vari podi, è vice-campione del mondo '54 dietro l'amico Fangio.

La morte del giovane connazionale Onofre Marimon nelle prove del GP di Germania, e il suo lavoro di concessionario d'auto, lo spingono a diradare la sua attività  sportiva.

Infatti, dal 1955, parteciperà  solo al GP di casa (2° su Ferrari nel 1955) e a una sporadica apparizione a Silverstone con la Vanwall nel '56.

Ultima gara al GP d'Argentina '60, su Ferrari.

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Non era un fisico scolpito, ma aveva molti muscoli, e questo aiutava molto per dominare quelle macchine grosse, scorbutiche e faticose (i G.P. duravano anche 500 km...).

Il 5 ottobre Gonzalez ha compiuto 90 anni, auguri Froilan!!! bravo.gif

In questo video di "Sfide", dal minuto 1:22 in avanti, ci sono brani in cui lo stesso Gonzalez ricorda la sua avventura a Maranello:

http://www.youtube.com/watch?v=4BpP4Srq2kI&feature=player_embedded

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  • 1 month later...
  • 2 months later...

SPEEDY GONZÁLEZ

di Gianni Cancellieri

Lo sguardo accigliato, infilava, quasi incastrava nell’abitacolo il suo bel quintale abbondante, serrava il volante in quelle manone poderose e via a tutto gas. Metteva in scena un repertorio di “staccate” e di derapate mozzafiato, e spesso riusciva a tagliare il traguardo prima di avversari che non solo pesavano venti o trenta chili meno di lui ma che a volte si chiamavano Nino Farina o Alberto Ascari o Juan Manuel Fangio. Le corse dei primi anni 50 ebbero in José Froilán González – per gli amici di tutto il mondo semplicemente “Pepe” – uno dei protagonisti più popolari e applauditi. Saperlo in vacanza a Modena pochi giorni prima del suo settantanovesimo compleanno, induce Ferrarissima a rubargli un paio d’ore per far rivivere insieme, ovvero far riapparire sullo schermo della memoria, qualche flashback del buon tempo andato.

– Pepe, quante stagioni ha abbracciato la sua carriera di pilota?

“Una quindicina, dal 1946 al 1960. Ma alle corse internazionali ho partecipato dal 1949 al 1957. Prima e dopo ho gareggiato soprattutto in Argentina, e non senza soddisfazioni”.

– Ha sempre vissuto a Buenos Aires?

“No, vengo da Arrecifes, una cittadina più o meno a metà strada fra la capitale e Rosario, che distano l’una dall’altra in linea d’aria circa 300 chilometri. Lì sono nato il 5 ottobre 1922 e ho abitato per molti anni”.

– La sua famiglia da dove veniva?

“Erano spagnoli, originari della provincia di León. Mio padre si chiamava Isidro José e mia madre Magdalena Filomena Pérez”.

– Lei non era figlio unico, vero?

“No, allora non usava. Sono il primo di tre, ho preceduto di qualche anno Maria Victoria e Oscar León”.

– Suo padre di che cosa si occupava?

“Era figlio di contadini e... forse proprio per questo motivo volle fare un altro mestiere, benché Arrecifes, nel cuore dell’immensa provincia di Buenos Aires, sia un centro agricolo per eccellenza. Papà avviò un negozio di alimentari ma aveva in mente altro. Il fatto è che aveva intuito l’avvenire della motorizzazione, per cui aprì una stazione di servizio con un’officina e, nel 1928, divenne il primo importatore della General Motors in Argentina. Tenemmo la concessionaria per mezzo secolo, fino al 1978, quando la GM lasciò il paese”.

– Beh, un padre così inserito nel mondo dell’automobile le avrà in qualche modo spianato la strada verso lo sport del volante.

“Cosa? Ma neanche per idea. Mio padre voleva che io studiassi. Dopo i primi tre gradi o cicli di studio (le scuole elementari e le medie, n.d.r.) che frequentai ad Arrecifes, mi mandò in collegio, dai Salesiani, a San Nicolás, dove rimasi la bellezza di cinque anni, dal 1935 al 1939”.

– E poi?

“Poi gli dissi che preferivo lavorare con lui nell’officina e lui non fece una piega. Avevo diciassette anni scarsi e cominciai da zero, come garzone. Dovevo fare un po’ di tutto. Ma ricordo che, in particolare, mi feci abbastanza rapidamente una solida esperienza sulle sospensioni, o per essere più esatti, sulle balestre, a quel tempo diffuse universalmente”.

– Suo padre gestiva l’azienda da solo?

“No, si era messo insieme al fratello di mia madre, Julio Pérez, che era dell’11, come Fangio. Quel mio giovane zio era un grande appassionato di meccanica e divenne un bravissimo preparatore. Poi nel 1935 non resistette alla tentazione e incominciò a correre, ottenendo buoni risultati nelle due categorie che nel nostro paese godono da sempre di grande popolarità: una è quella del ‘Turismo de carretera’ (a quel tempo, lunghissime gare stradali per vetture di serie elaborate, che anni dopo passarono a correre in circuito). L’altra era la cosiddetta ‘Mecánica Nacional’, che si articolava in due sottocategorie: ‘Fuerza limitada’ (corse in circuito per monoposto costruite in Argentina) e ‘Fuerza libre’, corrispondente più o meno alla Formula Libera internazionale”.

– Da ragazzo lei pensava già di diventare un pilota da corsa? E suo zio ebbe una funzione di stimolo nei confronti della sua passione sportiva?

“Ammiravo Julio e, indubbiamente, le corse mi appassionavano molto, anche se non erano l’unico sport nel quale ambissi cimentarmi. Giocavo a calcio, nuotavo, feci anche qualche gara in bicicletta. Ma soprattutto pensavo che dovevo rendermi indipendente dalla famiglia. Fu così che, appena ottenuta la patente, con l’aiuto di mio padre comprai un camion e incominciai a trasportare cereali da Arrecifes a Buenos Aires. Il lavoro non mancava certo, e durante e soprattutto dopo la guerra mondiale aumentò: molte navi salpavano dal porto della capitale per portare il grano dell’Argentina verso l’Europa affamata. Passò poco tempo e comprai un altro camion, e via, avanti a indietro, prima con i sacchi poi con il cassone stracolmo”.

– Una “scuola” singolare, pensando a quello che poi ha mostrato in fatto di capacità di guida.

“Ma sai, tutto può servire... se sei capace di servirtene. La guida di un camion richiede molta attenzione e precisione, tanto più se, per esempio, il fondo stradale non è asfaltato, come era il caso di molte delle nostre carreteras negli anni 30 e nei primi 40. Inoltre occorre una grande resistenza: in certi momenti di superlavoro ricordo che guidai ‘saltando’ una o anche due notti. Cioè non dormivo, ma ero talmente ‘allenato’ che non sentivo la fatica”.

– Bene: a quel punto l’indipendenza economica l’aveva raggiunta. Suo padre si opponeva ancora al suo sogno di diventare pilota?

“E chi aveva il coraggio di accennargliene? Per colmo di sventura, nel 1940, a soli ventinove anni, era morto lo zio Julio, vittima di un incidente nella nostra Mille Miglia, che si disputava sul percorso Buenos Aires-Bahía Blanca e ritorno. No no, in famiglia, l’argomento corse automobilistiche era proprio tabù”.

– E come fece?

– Come tanti, incominciai di nascosto. Comprai, indebitandomi, una vecchia Chevrolet 4 del 1928 e un motore, indi portai tutto nel garage di casa di un amico, ‘Lucho’ García, dove, lavorando come pazzi la notte, il sabato e la domenica, completammo assemblaggio ed elaborazione in tempo per il circuito di Carmen de Areco, al quale mi ero iscritto sotto uno pseudonimo: ‘Canuto’. Vinsi la mia batteria ma in finale dovetti abbandonare per un guasto. Era l’8 agosto 1946”.

– Quando se ne accorsero i suoi?

“Alla seconda gara. Eh, per forza: era il circuito di Arrecifes! Io feci tutto il possibile: mi iscrissi come ‘Montemar’, che era il nome di un cavallo da corsa di ‘Lucho’, provai di notte, ma quando mi presentai alle qualificazioni, mi si avvicinò mio padre, che evidentemente aveva avuto una ‘soffiata’. Mi disse soltanto che se avessi disputato la gara dell’indomani me ne sarei dovuto andare da casa”.

– E fu proprio così?

“Io gareggiai, vinsi di nuovo la batteria e di nuovo mi ritirai per una rottura nella finale. Poi, effettivamente, me ne andai da casa per qualche giorno, ma in breve le acque si calmarono. Ossia: mio padre si rassegnò. E rientrai”.

– Dopodiché si fece un nome.

“Sì, soprattutto quando dalla Chevrolet 4 passai a una Ford A. In ogni caso, dal 1946 al 1949, fra batterie e finali, arrivai primo trenta volte”.

– E quell’esperienza fu sufficiente per passare senza problemi alla guida di monoposto di categoria internazionale?

“Sì, per almeno due motivi. Noi correvamo principalmente su piste a forma di ellisse, che chiamavamo óvalos, ossia ovali, con fondo dapprima sterrato e poi, più o meno a partire dal 1948, asfaltato. E lì, quanto a sbandate e a controsterzi, non si scherzava per niente: si imparava tutto. In secondo luogo, la guida di quelle macchine argentine non era molto diversa da quella delle loro rivali diciamo ‘europee’. E infatti io non sono stato certo il solo a compiere senza particolari problemi quel passaggio”.

– Fangio ha detto che alla sua formazione iniziale hanno contribuito molto anche le gare su strada. Per lei non è stato così?

“Fangio ha corso molto e vinto in ‘Turismo de carretera’, io no. Ne ho fatte un paio di quelle maratone, ritirandomi e comunque senza appassionarmi. Non mi piacevano. Non mi piaceva una guida nella quale era necessario improvvisare continuamente. E non solo in Argentina: neanche la Mille Miglia italiana mi andava a genio. Mi trovavo a mio agio, invece, sui circuiti, specialmente se veloci o velocissimi, dove ogni pilota in ogni curva poteva dare il suo massimo. E sapendo esattamente che cosa faceva”.

– Quando guidò per la prima volta in corsa una monoposto europea?

“Fu nel G.P. General Perón, a Buenos Aires, il 30 gennaio 1949. Avevo comprato (con varie acrobazie, perché non è che nuotassi nell’oro) una Maserati 4CL da Nino Farina. Una macchina un po’ stanca, che mi piantò un paio di volte e altre due mi portò al traguardo quinto e tredicesimo. Frattanto continuavo ad avere successo nelle gare nazionali, finché un bel giorno ci fu la svolta”.

– A determinarla contribuì Fangio?

“Juan aveva costituito il famoso ‘Equipo Argentino Achille Varzi’ e all’inizio del 1950 fece in modo che io potessi guidare una delle loro Maserati 4CLT/48, a Mar del Plata e a Rosario. Arrivai sesto e settimo ma soprattutto dimostrai di potermi battere con tutti senza timori reverenziali e senza strafare, ossia senza i due classici handicap di molti ‘principianti’. Perciò fui ingaggiato nella squadra che in primavera si trasferì in Europa”.

– Fangio era un collega o un amico?

“Era un collega eccezionalmente bravo ma era anche un caro amico. L’avevo conosciuto nel 1946, perché era venuto nella nostra officina, con la sua famosa Chevrolet, che tutti gli aficionados conoscevano come ‘La Negrita’. L’aveva prestata a un altro pilota per la corsa di Arrecifes e aveva voluto passare da noi per salutare mio padre. Juan era stato amico di mio zio Julio, del quale come ho detto era coetaneo. Lo stimava come pilota ma più ancora come raffinato preparatore. Ma tornando a noi, fra Juan e me c’era dell’affetto sincero, che durò tutta la vita, il che peraltro non ci impedì di essere rivali accaniti in pista. Poi, fuori dalle corse, passavamo molto tempo assieme, in viaggio, in albergo o anche a spassarcela, indipendentemente dal fatto che appartenessimo o meno alla stessa squadra. È questo il bello dello sport, no?”.

– Come andò quella sua prima stagione europea?

“Nove ritiri su dodici gare: sembrerebbe un disastro, vero? E invece no. Anzitutto fu utilissima l’esperienza su quei circuiti, per me del tutto nuovi. Altrettanto preziosa fu la conoscenza dei miei avversari, del loro stile, dei loro punti deboli. E poi le macchine: dalle Gordini F2 e Sport alla Ferrari 166 F2, alla Maserati 4CLT/50, imparai molto e abbastanza in fretta. Non a caso le tre volte che arrivai al traguardo fui settimo a Zandvoort, terzo ad Angoulême e secondo ad Albi, dopo aver vinto la mia batteria. Da non dimenticare, infine, un grosso spavento a Montecarlo, il giorno del mio esordio nel campionato del mondo, quando per una fuga di carburante la mia Maserati prese fuoco e io finii all’ospedale con qualche brutta ustione”.

– Alla fine di quel 1950 mancavano pochi mesi al suo ingresso nella squadra ufficiale Ferrari e al suo “storico” trionfo di Silverstone. Come andarono le cose?

“Nel febbraio del 1951 si disputarono a Buenos Aires due corse della nostra Temporada, con una partecipazione internazionale meno nutrita rispetto al passato, ma con una importante novità: la Mercedes-Benz aveva mandato in Argentina tre monoposto W154-M163 del ’39 sopravvissute alla guerra, potenziate e rimesse a punto. Erano veri bolidi, con i loro motori di tre litri a 12 cilindri, nuovi compressori doppio stadio e potenze dell’ordine di 500 CV. Dovevano essere guidate da Farina, Lang e Kling. Noi invece avevamo due Ferrari 166 C (note anche come 166 FL o 166 America, n.d.r.), due litri 12 cilindri, compressore monostadio e circa 300 CV”.

– Se ricordo bene, il circuito era inedito.

“Sì, era stato scelto un nuovo tracciato, detto della Costanera Norte (letteralmente “litoranea nord”, n.d.r.), dal nome popolare dei lunghi viali che costeggiano l’immenso estuario del Río de la Plata. Il circuito del Parque Palermo, poco lontano da lì, era stato abbandonato perché ritenuto troppo pericoloso: fra l’altro, nel 1949 vi aveva perso la vita Jean-Pierre Wimille. L’Automobile Club sottopose il nuovo tracciato al giudizio di Fangio e mio e ambedue concordammo sul fatto che c’erano troppi tratti rettilinei, sui quali le Mercedes si sarebbero potute enormemente avvantaggiare. Perciò chiedemmo e ottenemmo di rendere il percorso più tormentato. Senonché, a modifica avvenuta, Fangio si vide offrire dalla Mercedes la concessionaria per l’Argentina nonché la macchina in un primo tempo assegnata a Farina. E accettò”.

– Probabilmente pensava che il grande vantaggio in termini di potenza fosse sufficiente per battere le Ferrari.

“Forse sì. Io invece pensavo alla coppia fenomenale della 166: con i rapporti che montammo, le ruote pattinavano anche in terza! Ero convinto di avere in mano l’arma vincente e non mi sbagliavo: arrivai primo e, sei giorni dopo, stesso circuito e stessa distanza, feci il bis”.

– Insomma, una Ferrari “privata” per due volte davanti alle Mercedes ufficiali: un risultato a sensazione.

“Va detto che forse le Mercedes non erano a posto al cento per cento con la carburazione, ma il risultato fece comunque piacere a Enzo Ferrari, che infatti mi mandò un telegramma di congratulazioni. Poco dopo partimmo per la stagione europea e alla prima occasione andai a trovarlo. Lo conoscevo dall’anno precedente, perché, quando con l’Equipo Argentino avevamo la nostra base a Galliate – nella casa e nel garage della famiglia di Achille Varzi – avevo fatto diversi viaggi a Maranello, per ritirare i ricambi destinati alle nostre Ferrari e avevamo anche avuto modo di simpatizzare. Gli dissi che correvo con le macchine che trovavo, oggi con una Talbot, domani con una Maserati: non con la Ferrari 166 C, che rientrava nelle norme della Formula Libera ma non in quelle della Formula 1, perché aveva un motore sovralimentato di due litri, anziché di uno e mezzo come il regolamento prescriveva. ‘Ad ogni modo, Commendatore, se pensa che io possa esserle utile, sono pronto’, aggiunsi”.

– E lui?

“Lui disse: ‘Peccato González, ho la squadra al completo, Ascari, Villoresi, Taruffi, Serafini... Ma se si presenterà un’occasione mi ricorderò di te’. Non so se in quel momento gli credetti o no. Sta di fatto che la squadra si assottigliò subito perché Serafini si ferì in un incidente nella Mille Miglia. Passarono un paio di mesi e arrivammo alla vigilia del G.P. di Francia e d’Europa, che era in calendario per il 1° luglio e che io avrei dovuto correre con una Maserati dell’Equipo Argentino. Invece all’ultimo momento seppi che la fatidica occasione era arrivata”.

– Cos’era accaduto?

“Taruffi, oltreché pilota di auto, era direttore sportivo della squadra motociclistica della Gilera, e non poteva assentarsi dal G.P. del Belgio, che si correva nello stesso giorno. Così il martedì precedente la gara, arrivando al circuito di Reims, mi viene incontro Nello Ugolini, direttore sportivo della Ferrari, con in mano un telegramma nel quale il Commendatore gli dice di farmi provare la 375 F1”.

– Una bomba.

“Sì, la notizia e anche... la 375 F1, che era già dotata della doppia accensione e aveva una potenza di 380 CV e arrivava senza problemi a 300 all’ora”.

– Temeva quella prova?

“A dire il vero, quella notte dormii poco. Ma l’indomani feci dei buoni tempi sul giro e Ugolini mi disse che avrei corso insieme ad Ascari e a Villoresi”.

– E corse così, diciamo “sulla parola”.

“Esatto, sulla parola, senza alcun contratto. Chiesi soltanto se c’era un’assicurazione e mi dissero di sì. Nelle prove ufficiali conquistai il sesto posto e la terza fila dello schieramento. Poi in corsa riuscii a non perdere terreno e a un certo punto mi trovai secondo, alle spalle di Farina. Ma frattanto Ascari e Fangio si erano fermati per dei guasti e, essendo tutti e due prime guide, ottennero di poter prendere la macchina di un compagno di squadra, come allora avveniva normalmente. Quando Fagioli si fermò per il rifornimento, Fangio salì sulla sua Alfetta, e lo stesso fece Ascari con la mia 375. Arrivarono primo e secondo, dividendo naturalmente con i colleghi, ossia con Fagioli e me, i punti conquistati”.

– A questo punto, però, Ferrari la mise sotto contratto, o no?

“Certo. Dopo la corsa tornai a Milano, dove avevo preso alloggio in un appartamento al numero 12 di Corso Buenos Aires, insieme con Amalia, la mia prima moglie e futura madre dei miei figli”.

– Quanti ne ha?

“Due: un maschio, Julio César, nato nel 1955 e padre di Juan Cruz, e Sayana, e una femmina, Laura Inés, nata un paio d’anni dopo e madre di Agustín, Fernando e Lucas. Fangio era cinque volte campione del mondo, io cinque volte nonno...”.

– Sua moglie veniva spesso alle corse?

“Sempre. E non solo perché nel 1951 ci eravamo sposati da poco. Preferiva così, pur avendo una paura maledetta”.

– Torniamo al contratto con la Ferrari.

“Sì, a Maranello il Commendatore mi chiese se volevo correre con le sue macchine fino alla fine dell’anno. Certo, dissi io. E lui mi propose un contratto che, mi disse, aveva le stesse condizioni di quello Ascari. Io non ci pensai un secondo e firmai. Quando mi salutò era molto fiducioso: mi sa che a Silverstone vinciamo, disse”.

– In effetti l’Alfa Romeo, che dal 1946 non perdeva una corsa, aveva ormai nella Ferrari un’avversaria molto temibile.

“Bisogna dire che la 375 F1 era una monoposto formidabile: penso la migliore macchina che io abbia mai guidato. La meccanica, oltreché poderosa, era molto resistente: in tutto il 1951 non dovetti mai ritirarmi per un guasto. E poi c’era la tenuta di strada, che con il ponte De Dion era eccezionale. Entravi in una curva un po’ ‘lungo’ e mentre sentivi partire il retrotreno non dovevi frenare: un deciso controsterzo e giù il piede, con tutti i 380 cavalli che ti facevano scivolare via lungo la traiettoria che era un piacere”.

– Vincere a Silverstone comunque non fu facile.

“Il circuito non l’avevo mai visto neanche in cartolina ma mi piacque subito e feci presto a ‘impararlo’, non era mica il Nürburgring, accidenti. Avevo una macchina ancora del tipo monoaccensione, ma conquistai ugualmente la pole position e anche dei grandi titoli sui giornali inglesi, perché era la prima volta che a Silverstone si superavano sul giro le cento miglia orarie di media. Per tutto questo ero fiducioso, ma bisogna dire che la Ferrari aveva un ulteriore vantaggio sull’Alfa Romeo e cioè il minor consumo di carburante. Loro avevano il compressore e noi no, il che produceva differenze enormi. Da un lato, la loro potenza era mostruosa, sui 420 CV, ma dall’altro i loro serbatoi erano più voluminosi dei nostri, e questo significava maggior peso e più tempo da perdere nei rifornimenti”.

– Andò in testa subito?

“No, perché prima del via il direttore di corsa disse a noi quattro della prima fila, ossia a me, Fangio, Farina e Ascari, che il primo che avesse anche solo accennato a ‘rubare’ sulla partenza sarebbe stato penalizzato di cinque minuti. La cosa ci preoccupò al punto che all’abbassarsi della bandiera tutti e quattro facemmo pattinare le ruote, mentre quelli delle file retrostanti ci superavano di slancio. Poco dopo riuscivo comunque ad andare in testa. Guardavo negli specchietti ma non vedevo Fangio, che al via si era fatto imbottigliare peggio di me. Lo immaginavo furibondo. Mi arrivò alle spalle dopo qualche giro e riuscì anche a superarmi, ma io non mi feci staccare. Poi lo passai di nuovo e spinsi a fondo ma nemmeno io riuscivo ad andar via, lui non mollava, figurarsi. Una bella lotta”.

– E tutti gli altri erano sempre più staccati?

“Sì, perché il ritmo che tenevamo io e Juan era forsennato. Ascari avrebbe potuto battersi con noi ma aveva ancora noie al cambio, come già a Reims, e si ritirò. Poi vidi che giro dopo giro facevo perdere a Fangio la mia scia e quando si fermò per rifornire e cambiare le gomme mi avvantaggiai molto. La sua sosta durò 49”. Io rientrai al box poco dopo e perdetti solo 23”. Quando tornai in pista ero ancora in testa e aumentai ulteriormente il margine su Juan, che alla fine era di quasi un minuto. Finimmo così, primo e secondo, con tutti gli altri persi chissà dove: per dire, Villoresi, terzo classificato, aveva due giri di distacco”.

– Poi vennero altri ottimi risultati.

“Sì, terzo al Nürburgring, secondo a Monza e a Barcellona: alla fine del campionato ero terzo, a sette punti da Fangio e a uno da Ascari. Se non avessi dovuto dividere i punti di Reims sarei stato secondo. E se avessi corso con la Ferrari fin dall’inizio... ma ragionare così non ha senso, con i ‘se’ non si va da nessuna parte”.

– Perché non continuò a correre con la Ferrari nel 1952?

“Diverse cose cambiarono. Fangio era rimasto appiedato a causa del ritiro dalle corse dell’Alfa Romeo e sia lui sia io fummo contattati dalla BRM, che aveva costruito una Formula 1 con motore a 16 cilindri e aveva urgente necessità di svilupparla. Ci offri-rono un mucchio di soldi, per cui accettammo di fare i collaudi e, appena possibile, anche qualche corsa, ma non i Gran Premi del campionato mondiale, che in quell’anno lì e in quello successivo si disputarono con monoposto di Formula 2. La macchina aveva una potenza semplicemente spaventosa: ho visto con questi occhi il motore al banco, con l’ago su 550 CV a 14.000 giri. Senonché la sua affidabilità era molto scarsa, si rompeva di tutto, una volta il motore, una volta il cambio. Anche i freni a disco, che a quel tempo erano una grossa innovazione, davano problemi. Insomma ci fu molto da lavorare, anche perché a metà stagione Juan si fece male a Monza, nell’unico incidente serio della sua carriera e io dovetti continuare da solo. A maggior ragione mi sembrarono importanti i due successi che conquistai in autunno a Goodwood alla guida di quella monoposto”.

– Però quell’anno vinse anche con delle Ferrari, sia pure “private”.

“Sì, con la vecchia 166 C dell’Equipo Argentino fui primo nel circuito della Gávea, a Rio de Janeiro, e con la 375 F1 di Tony Vandervell, ribattezzata ‘Thin Wall Special’, mi imposi in un’altra corsa a Goodwood, il Richmond Trophy”.

– Il 1953, invece, fu un anno poco fortunato.

“Per la verità non era cominciato male: avevo firmato per la Maserati e gareggiavo con la A6 GCM, che era una macchina promettente. Ottenni qualche buon piazzamento e, fuori dal campionato del mondo, corsi anche con le nuove Lancia Sport. Purtroppo fu proprio con una D23 della marca torinese che il 26 luglio mi feci del male. Fu nelle prove del G.P. del Portogallo, sul circuito di Monsanto, a Lisbona. Avevo già conquistato la pole position e giravo senza forzare quando in una curva trovai uno che andava più lento e tentai di passarlo all’esterno. La macchina mi si intraversò e non ci fu verso di riprenderla. Uscì di pista andando picchiare contro una staccionata e l’impatto mi costò lo spostamento di una vertebra che mi bloccò per il resto della stagione”.

– Poi tornò con la Ferrari.

“Sì, nel 1954, che fu un buon anno, anche se la Mercedes faceva soffrire noi come tutti gli altri. Avevo già in tasca un contratto con la squadra di Neubauer, ma Ferrari insistette e mi lasciai convincere. Nelle gare del Mondiale F1 riuscimmo a battere le macchine tedesche solo due volte, Hawthorn in Spagna e io in Gran Bretagna, di nuovo a Silverstone, dove diventai un beniamino del pubblico, perché vinsi anche il Daily Express Trophy e un’altra gara per vetture Sport, con la 375 Plus, la grossa cinque litri con la quale poi arrivai primo in coppia con Trintignant nella 24 Ore di Le Mans (che la Ferrari fino allora aveva vinto una sola volta, nel 1949). Con un’altra Ferrari Sport, la 750 Monza, mi presi la rivincita sulla malasorte dell’anno prima mettendomi in tasca il G.P. del Portogallo. A fine anno arrivai secondo nel Mondiale F1, ma con la squadra di Maranello vincemmo il campionato del mondo dei costruttori di vetture Sport, a cui il Commendatore teneva moltissimo”.

– Poi però le Ferrari entrarono in un periodo critico.

“È vero, ma non loro soltanto. Io ci provai con le 625 di Maranello, poi con le Ma-serati 250 F e con le Vanwall, ma per riuscire a vincere un’altra corsa dovetti aspettare più di tre anni. Va detto che nel frattempo erano accaduti due fatti che segnarono altrettante svolte nella mia vita, uno tragico e uno molto negativo. Nelle prove del G.P. di Germania 1954 si era ucciso Onofre Marimón, che tutti noi chiamavamo ‘Pinocho’ e che era considerato la più concreta speranza dell’automobilismo argentino. Una grande pena: gli ero molto affezionato. Della sua fine, guarda, parlo il meno possibile ancora oggi. Poi io avevo avuto un altro brutto incidente, a Dundrod, un’uscita di strada che mi lasciò privo di sensi per quasi un’ora e che mi sarebbe po-tuto costare la vita”.

– Da allora ridusse molto l’attività.

“Sì, due o tre corse all’anno dal 1955 al 1957. Nel frattempo Amalia, con i bambini piccoli, insisteva perché smettessi, e io mi lasciai convincere. Fino a un certo punto, si capisce. Perché le chiesi di lasciarmi un po’ divertire con qualche ‘corsetta’ nazionale e lei disse di sì, o insomma si rassegnò. Non sapeva cosa avevo in mente. Riuscii ad acquistare telaio e carrozzeria di una vecchia monoposto Ferrari 625 del 1954, appartenuta a Peter Whitehead (numero 0482). Sopportò... qualche mia modifica, dopodiché l’accoppiai con un 8 cilindri Chevrolet Corvette di 4,7 litri. Lo so, in apparenza, una bestemmia meccanica. Ma in realtà un binomio molto efficiente, 270 CV e una grande affidabilità. Così tornai in pista. Tra la fine del 1957 e i primi mesi del 1960 vinsi 13 corse (18, contando anche le batterie) e due campionati o trofei sudamericani, basati su una serie di gare disputate in Argentina, Brasile e Uruguay”.

– E sua moglie protestava?

“Sempre. Mi chiedeva che senso aveva correre come un dilettante dopo essere stato un professionista impegnato al massimo livello. Non riuscii mai a farglielo capire”.

– Fra l’altro, non si trattava proprio di “corsette”.

“No, accidenti. Penso di poter dire che arrivare primo un paio di volte nella 500 Miglia di Rafaela – 800 chilometri che a quel tempo si correvano su terra battuta – non è un’impresa da poco”.

– Quale fu la sua ultima corsa?

“Il Circuito di El Pinar, in Uruguay, il 15 maggio del 1960. Vinsi e mi aggiudicai il secondo trofeo sudamericano di cui ho detto. Ma non uscii dal giro: non correndo più io, feci correre altri. La Ferrari-Chevrolet prima e una Maserati-Chervrolet più avanti furono un ottimo ‘trampolino’ per più di uno dei nostri giovani piloti”.

– Frattanto trovava anche modo di continuare la sua attività commerciale.

“Ci mancherebbe, quella non si è mai interrotta. Ho venduto General Motors fino al 1978, poi per una ventina d’anni Renault. Ora, dal 1997, Fiat”.

– Segue la Formula 1? Vede i Gran Premi alla tele?

“Sì, ma salvo eccezioni non sono il massimo del divertimento: molto più vivaci quelli di moto. Ad ogni modo resta pur sempre uno spettacolo vedere le prodezze dei campioni”.

– Chi va più forte, secondo lei?

“Michael Schumacher. Non ha soltanto una grande macchina: è più bravo degli altri, lo ha dimostrato tante volte, in particolare quando piove, perché la pista bagnata seleziona i valori senza pietà. Mi viene in mente il povero Senna, grande come nessun altro. Cosa non faceva sul bagnato! Mi ricordo di quella volta, a Donington mi pare: pronti, via nel diluvio e dopo il primo giro lo si vide arrivare da solo. Pensai che un incidente avesse eliminato tutti quanti meno lui! Invece li aveva staccati come fossero fermi...”.

– E dopo “Schumi” chi le sembra il migliore?

“Mah... Con le macchine di oggi sono in tanti ad andare forte, voglio dire, a frenare tutti quanti a cinquanta metri dalla curva e non da trecento a cento come ai miei tempi. Comunque ci sono due sudamericani che mi sembrano molto in gamba. Uno è Carlos Montoya, che dopo un anno di ambientamento su circuiti che non conosceva è pronto per dare del filo da torcere a tutti. Anzi, ha già incominciato. L’altro è Felipe Massa, un esordiente che potrebbe essere la rivelazione del 2002”.

– Un colombiano e un brasiliano, dunque. E argentini niente?

“Abbiamo buoni piloti, ma per svettare occorre molto di più. Soldi e sponsor a parte, una macchina competitiva è il minimo, ma pochi ne possono disporre”.

– Che probabilità ci sono di rivedere nel calendario del campionato del mondo di Formula 1 il Gran Premio d’Argentina?

“Poche, pochissime, quantomeno a breve termine. Da un lato (senza contare ciò che sta succedendo nel mondo) c’è la crisi economica del paese, che purtroppo è molto seria, dall’altro abbiamo un presidente che non credo veda la rinascita del nostro Gran Premio come un obiettivo prioritario. Anzi, forse neanche come un obiettivo. Per dire: con Menem c’eravamo riusciti a riportare la F1 a Buenos Aires, e non è che allora le nostre finanze fossero proprio floride”.

– A proposito di presidenti, che ricordo ha di Perón?

“È appena il caso di dire che non voglio avventurarmi in un giudizio politico. Ma parlando da uomo di sport quale sono stato e sono ancora, non posso non considerare con riconoscenza ciò che molto concretamente fece perché l’Argentina potesse emergere anche in questo campo. In altre iniziative, magari più importanti, non gli andò bene, ma il nostro automobilismo, che da decenni aveva alle spalle una realtà tecnica e agonistica ammirevole ma che pochi conoscevano al di fuori dei nostri confini, ricevette un impulso incredibile e si impose su scala mondiale. È abbastanza noto che l’Automobile Club Argentino, grazie ai mezzi stanziati dal governo, poté acquistare in Europa vetture competitive nonché promuovere un’attività molto intensa e ad alto livello, consentendo ai nostri corridori più promettenti di misurarsi con i migliori. È meno noto che, individuati due piloti emergenti, Fangio e il sottoscritto, l’aiuto che ricevemmo fu, come dire, istituzionalizzato: dal 1950 al 1955 fummo a libro paga come delegados obreros, un incarico di tipo consolare, che ci fece sentire in qualche modo ambasciatori del nostro paese, non solo perché lo rappresentavamo nello sport”.

– In Italia molti si ricordano ancora di lei.

“Lo so, e non solo in Italia. Dall’Inghilterra, ad esempio, ricevo ancora posta e una quantità di inviti. Fra l’altro, mi è spiaciuto non poter andare a Silverstone il 14 luglio dell’anno scorso, a festeggiare il mezzo secolo della prima vittoria Ferrari nel Mondiale F1, ma la salute non me lo permise e la mia bella famiglia tanto meno”.

– Una famiglia molto unita, a sentire come ne parla.

“Sì, abbiamo legami forti e belli. Mi hanno dato e mi danno molto: anche, ad essere sincero, in termini di sopportazione. Mi riferisco anzitutto ad Amalia, che mi è stata accanto negli anni dei rischi maggiori. Purtroppo è mancata nel 1973, ma la nostra coesione, fra noi tutti, dico, non è venuta meno. Anni dopo mi sono risposato, con Elena Teresa, che si è inserita nel nostro piccolo mondo rafforzando ulteriormente i nostri affetti”.

– Le mancano le corse?

“Un po’ sì, perché mentire? Ma, come diciamo in Argentina, ciò che ho avuto, chi me lo toglie? Non posso dire di avere dei rimpianti. Certo era bello essere giovani, girare il mondo e sfidarsi a ogni curva, battersi come leoni e restare amici. E appena fuori dall’autodromo, via insieme a godersi la vita... Quanta allegria, scherzi, risate! Oggi, mi sbaglierò, ma sono convinto che ci sia in giro molta meno voglia di ‘giocare’, se possiamo dire così. È vero peraltro che ci sono... molti ma molti dollari in più. A milioni”.

– Una misura, un segno della sua popolarità?

“Avevo smesso di correre da una decina di anni, quando a un Gran Premio d’Argentina venne a salutarmi un personaggio piuttosto celebre e mi raccontò un episodio di cui mi ero completamente dimenticato. Il giorno della mia vittoria a Silverstone nel 1951 lui era tra gli spettatori, e alla fine della corsa si era fatto largo tra la folla ed era arrivato davanti a me trafelato, chiedendomi un autografo. Mi parlò della gioia con cui era tornato a casa mostrando a tutti il suo album con la firma dell’uomo del giorno, che gli inglesi chiamavano Pampas bull, il toro delle pampas. Quel ragazzo, che nel 1951 aveva dodici anni, si chiamava Jackie Stewart”.

«Ferrarissima», settembre 2001

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– Andò in testa subito?
“No, perché prima del via il direttore di corsa disse a noi quattro della prima fila, ossia a me, Fangio, Farina e Ascari, che il primo che avesse anche solo accennato a ‘rubare’ sulla partenza sarebbe stato penalizzato di cinque minuti.

 

 

 

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Io me la sono letta tutta, l'intervista, e mi ha molto colpito, perché devo dire che di Formula 1 anni '50 e precedenti conosco pochino, così come poco conosco Gonzà¡lez (poco ovviamente in confronto a chi ne conosce tanto seriamente).

 

Delle gare di Turismo Carretera ho sentito parlare anche altrove, se non ho capito male erano corse similari alla Mille Miglia, solo che ne facevano abbastanza da farci su un campionato intero, o sbaglio (anche se ci vorrebbe un thread apposito per parlarne)?

 

Sull'episodio citato da Alessio penso che il "rubare alla partenza" rappresentasse una partenza anticipata, o no?

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Nel video quotato qui sotto, Gonzalez parla della minaccia di un minuto di penalità  per partenza anticipata. Forse nell'intervista del 2001 ha volutamente esagerato per dire che gli avrebbero comminato una pesante sanzione...

 

In questo video di "Sfide", dal minuto 1:22 in avanti, ci sono brani in cui lo stesso Gonzalez ricorda la sua avventura a Maranello:

http://www.youtube.com/watch?v=4BpP4Srq2kI&feature=player_embedded

 

 

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  • leopnd changed the title to Jose Froilan Gonzalez

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