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Gian Luca 60

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Ieri, leggendo questo passo, mi è scappato una risata pensando alla pacatezza di Zoff:

Come si para un rigore?
E chi lo sa? Io c’erano periodi in cui li paravo e altri in cui non c’era niente da fare. Devo confessare che non si studiava tanto, ci si affidava all'istinto. Ricordo una volta, col Bologna. Il Trap mi aveva detto che il rigorista rossoblù tirava sempre a sinistra. Purtroppo ci fu proprio un penalty contro di noi e quello si avvicinò al dischetto. Io volevo buttarmi a destra ma pensai che se poi lo avesse tirato a sinistra il Trap mi avrebbe sgozzato. Allora feci come diceva il mister. E quello, ovviamente, tirò a destra. Mi alzai come una furia e gridai verso la panchina: «Maledetto te e io che ti sto a sentire, non mi dire più niente!». Se ci fossero state le telecamere di oggi sarebbe diventato uno scandalo nazionale. Comunque il Trap, da quella volta, non mi disse più nulla.

Dino Zoff da 'La vita in novanta minuti. La poesia del calcio raccontata dai grandi campioni' (2016) di Walter Veltroni

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da  'La nostra bambina. 2006-2016. I primi 10 anni di una Coppa del Mondo con 23 papà' (2016) di Alessandro Alciato e Fabio Cannavaro

Alcuni aneddoti raccontati da Andrea Pirlo:

Pochi istanti prima che Fabio alzasse la Coppa, Mauro Vladovich, il segretario della squadra, l’ha preso da parte e gli ha dato un ordine, travestito da consiglio: «Mi raccomando, alzala con stile».

  Il nostro capitano è andato nel panico. Non è che si facciano le prove per una cosa del genere, aveva paura di sbagliare. E poi, cosa significa “con stile”? Se l’è comunque cavata, ne è uscito di slancio, abbiamo anche scoperto che davanti all’obiettivo ci sa fare. È fotogenico, l’immagine del trionfo è venuta bene. Vabbe’ che mentre giocavamo potevamo pure assomigliare a una Nazionale di classe, ma non è che l’eleganza ci appartenesse totalmente. O almeno, non a tutti noi: prendiamo Gattuso, è una bestia. Viene dal libro della giungla e gli vogliamo bene per quello. Personalmente, io lo adoro, come se fosse mio fratello. Di solito apre l’armadio, si benda e sceglie i vestiti a caso, ma in Germania è andato oltre. Alla fine della fase a gironi ha avuto l’illuminazione: fra le sue cianfrusaglie ha pescato una tuta dell’Italia e si è convinto fosse impregnata di una sorta di fluido antisfiga. Insomma, che portasse bene. L’ha messa e non l’ha più tolta, nel vero senso della parola. Purtroppo. Da quel giorno l’ha indossata sempre, senza lavarla. Ogni giorno la stessa. Fortuna che per allenarsi utilizzava i classici pantaloncini e la classica t-shirt fornita dallo sponsor, ma dopo la doccia ricominciava il disastro, annunciato urbi et orbi: «Ragazzi mi vesto».

  «No, ti prego!» La reazione era unanime, quando si dice un gruppo unito.

  Prendeva la tuta, se la metteva e saliva sul pullman. Arrivava in ritiro e la tuta era sempre la stessa. Scendeva a cena e nulla era cambiato. Soprattutto lui non si era cambiato. Un giorno ci ha svelato un segreto ed è un miracolo che non ci sia venuta la nausea: «Sapete una cosa? Me la tengo anche a letto, al posto del pigiama». Dormiva vestito! Faceva un caldo maiale e Rino pareva un sommozzatore in inverno, tutto bardato e leggermente puzzolente. Perché la felpa era a maniche lunghe, lo faceva soffrire. Gattuso resisteva e sudava. Dei goccioloni mai visti, la sua fronte zampillava come una fontana. Ma non mollava. Una sauna dietro l’altra, a cielo aperto, davanti a tutti. Anche in conferenza stampa si presentava così. Per quasi un mese non l’ha lavata, l’igiene era un’altra cosa. Certe volte al campo di allenamento si sfiorava la rissa, perché quando si cambiava prima di iniziare a lavorare gliene facevamo di tutti i colori, prendevamo la tuta in ostaggio, portandola via dallo spogliatoio (turandoci il naso per evitare qualsiasi tipo di rischio). Impazziva, andava fuori di testa: «Dove minchia l’avete messa?».

  Altro che petaloso e Accademia della Crusca.

  «L’abbiamo bruciata in piazza, Rino.»

  «L’abbiamo sganciata su Hiroshima.»

  «L’abbiamo spedita in Nevada, all’Area 51. Vogliono studiare se c’è vita oltre le ascelle.»

  «L’abbiamo donata all’Iran, serve per i loro test nucleari.»

  «L’abbiamo portata allo zoo, i maiali avevano finito il fango.»

  «L’abbiamo imbarcata sull’Apollo 13, hanno già chiamato Houston dicendo di avere un problema.»

  Una sola domanda, mille risposte diverse. A Rino partiva la brocca, picchiava il primo che si trovava a portata di pugno, restava in mutande per un periodo di tempo piuttosto lungo, prima che ci intenerissimo e gli restituissimo la refurtiva. Più che altro vinti dal disgusto, dopo averlo visto nudo.

  «State sereni, ci porterà lontano questa tuta.»

  «Siamo noi ad allontanarci da te, non ti si può stare vicino.» Esageravamo apposta, per farci due risate alle sue spalle.

  Quando ci trovavamo in ritiro gliela rubavamo e a volte riuscivamo anche a gettarla nei cestoni della lavanderia, fra le cose pronte per essere buttate in lavatrice. Avvertivamo Rino con un discreto ritardo e lui si catapultava giù, nei saloni più inaccessibili dell’albergo, tuffandosi nei cassonetti alla ricerca del suo personalissimo amuleto. Un’immagine triste: Gattuso piantato con la testa fra i panni sporchi, con le gambe all’insù, peraltro tutte pelose. Era un piacere metterlo in mezzo, non riusciva a trattenersi e le sue sfuriate hanno rappresentato uno degli spettacoli più indegni – e allo stesso tempo più divertenti – di quel Mondiale del 2006. Senza Rino non riuscivamo a stare, era il collante di una squadra i cui componenti adoravano passare del tempo insieme. Non fosse stato così scaramantico, forse durante le lunghe giornate trascorse in hotel ci saremmo arresi di fronte alla noia. Lui, invece, gran parte del tempo libero lo trascorreva facendo le valigie: prima di ogni partita, dagli ottavi di finale in avanti, oltre alle cose che gli sarebbero servite per giocare la sfida successiva, ritirava anche tutto il resto. Una volta l’abbiamo beccato con le mani nel trolley più che nella marmellata: «Rino, ma che fai?».

  «La valigia.»

  «Ma è troppo grande, dobbiamo stare via appena due giorni e ti porti tutta quella roba lì?»

  «Voi non capite proprio un cazzo. Questa è la valigia per tornare in Italia e la lascio qui a Duisburg, in camera mia. In caso di sconfitta, è già pronta.»

  Aveva scelto quel modo per esorcizzare una possibile eliminazione. Da un certo punto in avanti erano tutte sfide secche e c’era spazio solo per i vincitori, mentre i vinti venivano rispediti a destinazione. Ha avuto ragione lui, i suoi gesti ripetitivi e cervellotici hanno pagato e funzionato. E allora amo immaginare i camerieri dell’hotel di Duisburg, il giorno della nostra partenza, mentre rimettono a posto tutte le nostre camere tranne una, quella di Rino, che secondo me è stata rasa al suolo per via delle radiazioni emanate da quella tuta mai lavata.

Gattuso, sapendo che avrebbe trovato un Paese intero ad aspettarlo, per il viaggio di ritorno verso l’Italia si è cambiato. Pareva un’altra persona. Quasi una persona normale.

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:rotfl2:

Agli Europei in Portogallo, in ritiro, Cassano veniva a bussare alla porta della mia stanza e si metteva a urlare: «Trapattò! Trapattò! Fammi giocare che so’ il più forte!». Quando era in vena era pure molto simpatico, ma con i compagni si comportava quasi sempre in modo scontroso e competitivo, tendeva a litigare tutti i giorni con uno diverso. Passavo ore a chiacchierare con lui seduto sul suo letto per tenerlo calmo. Poi mi toccava aspettare che lui non ci fosse e spiegare agli altri ragazzi: «Abbiate pazienza con Antonio. Se riuscite a sopportarlo vedrete che sarà meglio per tutti perché è molto molto molto forte».

Giovanni Trapattoni, Bruno Longhi - 'Non dire gatto. La mia vita sempre in campo, tra calci e fischi ', ed. Rizzoli (2015)

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Visto che si parlava di 1958 di là, un quadro abbastanza esaustivo si può tracciare leggendo due articoli  tratti da 'storiedicalcio.altervista.org'

Del primo riporto uno spezzone, è un' intervista fatta a Ferrario. L'altro è un articolo del giornalista Alfeo Biagi.

 

http://storiedicalcio.altervista.org/blog/ferrario_mondiali_1958.html

A Stoccolma doveva esplodere il fiabesco Brasile che con i suoi Pelè, Vavà, Didì più che una squadra di calcio rievocava i maliziosi appelli di Chevalier-Danilo nella “Vedova allegra” alle sue leggiadre e disponibili amichette. A Stoccolma non doveva mai approdare la rappresentativa d’Italia irrobustita, si fa per dire, da un nugolo di oriundi. Erano gli anni Cinquanta, la Penisola subiva un pò incantata, un pò sbalordita, un pò sconcertata l’invasione della legione straniera della pedata, le incursioni più o meno felici di probabili e improbabili oriundi che in massa venivano prelevati dagli alveari sudamericani.

Il calcio nostrano viveva un pigro e ammirato letargo: lo spettacolo era riservato agli assi che si calavano nella povera Italia, ancora faticosamente impegnata nella ricostruzione della propria economia.
Ma i quattrini per le scarpe bullonate non mancavano mai. Ci piombavano addosso stranieri e oriundi e nel contempo s’accendevano dispute furibonde sulle tattiche da applicare in campo, il “sistema” inglese stava traballando, Foni aveva vinto due scudetti con l’Inter nel ’53 e ’54 con il battitore libero. Prima ancora, nel ’50, Jesse Carver aveva dato l’ottavo scudetto alla Juve richiamando l’ala destra Muccinelli a protezione della retroguardia. A spintoni e gomitate il “catenaccio” si stava facendo strada nelle formazioni di club. Non nella nazionale, impegnata sino allo stremo a difendere le sacre tradizioni.

Scivolati malamente al primo impatto coi mondiali del ’50 in Brasile e del ’54 in Svizzera, gli azzurri, confortati dal supporto qualitativo degli oriundi (Ghiggia, Pesaola, Schiaffino, Montuori, Da Costa), affrontarono con notevole dose di buona volontà la nuova avventura iridata che si sarebbe concentrata in Svezia, sbrigate le formalità preliminari che li vedevano opposti al Portogallo e all’Irlanda del Nord. Due scoglietti, per il calcio milionario del Bel Paese (omissis) ....

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http://storiedicalcio.altervista.org/blog/mondiali_58_biagi.html a firma di A. Biagi.

Silurato Czeizler ad opera del Con­siglio Federale, i capoccioni ebbero la felice pensata di varare una strampalatissima Commissione tecnica, di cui facevano parte Pasquale, Marmo, Tentorio e Schiavio, con Alfredo Fo­ni allenatore. Chi erano costoro? Pa­squale, lo sapete. Luciano Marmo, un gentiluomo di provincia, dirigen­te del Novara, gran brava persona, magari un po’ fuori dal tempo. Pen­sate che, in occasione di una par­tita degli azzurri a Firenze, ebbi mo­do di assistere a questa esilarante scenetta. Un mio collega lo aveva accusato, sul giornale, di essere più interessato ai polli del Valdarno che alle esigenze degli azzurri, sfotticchiandolo niente male.

I due si in­contrano alla stazione di Firenze, Marmo (un uomo alto, massiccio, dal viso sempre accigliato) gli va incontro e gli butta un guanto sul viso, dicendo: «Aspetto i suoi padrini». Il mio collega, un tipo scan­zonato e allegrissimo, raccoglie il guanto e dice «Commendatore, mi dia anche l’altro, per favore, ho un freddo alle mani…». Marmo per poco non svenne, si ostinò a chie­dere al mio collega di battersi alla spada, io fui richiesto di fare da padrino a quel bel tomo. A Bologna, dove ci riunimmo con i padrini di Marmo, rischiammo di crepare tutti per il gran ridere. Il duello non si fece, Luciano Marmo ci rimase ma­lissimo.

Tentorio era dirigente del Brescia, un tipo un po’ scialbo che portava sempre un buffo cappelluccio cal­cato in testa, piovesse o splendesse il sole, Schiavio era troppo signore per impegolarsi in certi bassi giochi di corridoio, stringi stringi coman­davano in due: l’infaticabile, piro­tecnico, vulcanico dottor Pasquale e il taciturno dottor Foni. Tanto che, nell’aprile del ’57, ci fu un altro ri­mescolo nel pentolone azzurro: Foni fu nominato C.T., con la supervisio­ne della Commissione suddetta alla quale fu aggregato il romano Vin­cenzo Biancone, un uomo esile, dia­fano, gentilissimo, che non mangia­va mai.

Dunque, si iniziano le eliminatorie per il mondiale del 1958, l’Italia viene sorteggiata in un girone comprendente Portogallo e Irlanda del Nord, tutti tirano un sospirone di sollievo. Il Portogallo (Eusebio era ancora di là da venire) non faceva paura a nessuno, l’Irlanda era una Nazionale pressoché sconosciuta, ci si sentiva in una botte di ferro. Invece capita che, battuta per 1 a 0 (gol di… Cervato su punizione) l’Ir­landa a Roma, andiamo a Lisbona e becchiamo brutto 2 a 0 contro i portoghesi, nonostante la presenza in squadra degli oriundi Ghiggia e Pesaola. Sì proprio lui, il Petisso, che allora giocava (niente male, deb­bo dirlo) ala sinistra nel Napoli. E che collezionò, in quella sciagurata occasione, la sua prima ed ultima maglia azzurra.

Si doveva rimediare giocando il ritorno con l’Irlanda a Belfast dove sarebbe bastato un pareggio per poi liquidare il conto al Portogallo in Italia, nell’ultima partita del girone. E qui scoppiò il dramma che sembrò il più incredibile di tutta la storia del calcio italiano (la Corea sarebbe venuta qualche anno più tardi…). La partita era in programma per il 4 dicembre di quel lontano 1957 e un gran nebbione, che aveva avvolto tutte le isole britanniche in un mare lattiginoso e cupo, giocò il primo, brutto scherzo agli azzurri. La co­mitiva era arrivata, fortunosamente, a Belfast con un paio di giorni di anticipo, mentre l’arbitro designato, l’ungherese Zsolt, ebbe la pessima idea di mettersi in viaggio solo all’ultimo momento. Superò la tratta Budapest-Londra senza eccessivi ri­tardi, ma non riuscì più a ripartire. Su Londra e dintorni era piombato una specie di buio a mezzogiorno, aeroporti chiusi, traghetti da Liverpool a Belfast bloccati nei porti, niente da fare. Zsolt se ne restò me­stamente in albergo a meditare sulla precarietà dei viaggi nella stagione invernale.

Intanto a Belfast lo Stadio, il te­tro, decrepito «Windsor Park», ave­va fatto il tutto esaurito. C’era mol­ta attesa (tutt’altro che benevola) per veder giocare i «milionari» ita­liani, fra i quali, ed era un altro motivo di scherno per i nostri co­lori, sarebbero scesi in campo due uruguaiani, Ghiggia e Schiaffino, e un cileno, Montuori, i così detti «oriundi» che tante antipatie ci at­tiravano all’estero, perché tutti ave­vano il sentore di certe gherminelle federali messe in atto per poter ga­bellare questi giocatori, che ben po­co o niente avevano di «italiano», come autentici azzurri. Dunque, vie­ne l’ora del match, i dirigenti irlan­desi, con sottile perfidia tutta britan­nica, fanno pressapoco questo an­nuncio a mezzo degli altoparlanti: «Dato il mancato arrivo causa neb­bia dell’arbitro signor Zsolt, la par­tita avrà carattere amichevole. Gli italiani si sono infatti rifiutati di accettare, come direttore di gara uffi­ciale, l’arbitro locale signor Mitchell».

Figuratevi i fischi, le impre­cazioni, i dileggi che rotolarono dal­le scalee di legno del «Windsor Park» in direzione degli azzurri quando sbucarono sul terreno di gioco! Era una falsità bella e buona. Non erano stati gli italiani a rifiutare il signor Mitchell, benché fosse irlan­dese, era stato il Commissario della FIFA presente a Belfast a negare l’autorizzazione allo svolgimento del­la gara in assenza di Zsolt. Dopo feb­brili trattative, nelle quali l’ing. Ba­rassi, presidente federale, aveva avu­to la parte di protagonista, si era convenuto di giocare ugualmente, perché i biglietti erano tutti venduti da un pezzo, ma, ovviamente, da amichevole. Senza comunicarlo al pubblico se non a cose fatte. Magari sarebbe stato il solito pateracchio all’italiana, ma poteva salvare ca­pra e cavoli.

La partita, discreta e ben giocata, si risolse con un pareggio per 2 a 2 (segnarono, per noi, Ghiggia e Montuori), ci furono scontri gagliardi, ma niente che facesse pensare all’ir­reparabile. Invece, al fischio di chiu­sura, una torma di forsennati si ri­versò sul campo, urlando invettive e insulti ai nostri giocatori, che cer­carono scampo nella fuga. Soltanto Rino Ferrario, lo stopper della Juve, restò attardato (stava firmando l’autografo ad un ragazzino quando scoppiò la bagarre…) e fu travolto. Ne buscò di santa ragione: ma re­stituì certe botte a molti irlandesi che se le ricordarono per un pezzo. Fu salvato, a stento, dalla Polizia, intervenuta con colpevole ritardo. Una pagina vergognosa per Belfast teatro, molti anni dopo, di ben altre vicende tristissime e grondanti san­gue.

Comunque, io ho sempre ricordato la capitale nord irlandese come una delle più brutte e inospitali città del mondo, buia grigia deserta. E guai a metter piede in uno dei tanti pubs della città: mai visto ubriachi tanto violenti in nessun’altra parte della terra. Non vi consi­glio davvero di trascorrere le vostre vacanze nell’Irlanda del Nord. Bene, si torna in Italia, la partita viene fissata per il 15 gennaio del 1958 dopo, cioè, l’impegno con il Portogallo, già in calendario per il 22 dicembre ’57, come da precedenti decisioni della FIFA. E contro i portoghesi si gioca a Milano, con un nebbione che non aveva niente da invidiare a quello di Londra, gli az­zurri vincono per 3 a 0 (doppietta di Gratton, terzo centro di Pivatelli), ma nessuno riesce a vedere un bel niente. Io, riesco ancora una volta ad infilarmi sul campo, vado in pan­china accanto a Foni (erano tempi molto meno rigidi di quelli attuali, bastavano un poco di sveltezza di gambe e una buona dose di faccia tosta per guadagnare posizioni… strategiche oggi impensabili) e acca­de questo.

A un certo punto, nel mare lattigi­noso che avvolge San Siro, vedo un’ ombra che si accosta alla linea late­rale e… vomita. Guardo meglio, è Pivatelli, centrattacco del Bologna, quindi mio amico per la pelle. Gli dico: «Gino, cosa succede?». E Pi­vatelli: «Stiamo vincendo per due a zero, ha segnato due volte Ciccio» (Gratton lo chiamavano così). «No, ribatto, voglio sapere cosa ti succe­de». «Ah, niente un po’ di imbaraz­zo di stomaco, adesso torno dentro e vedrai che segno anch’io». Piva­telli fu di parola e io fui forse il… primo spettatore di San Siro a sa­pere che gli azzurri stavano vin­cendo. E’ verità sacrosanta, documentabile da quanti erano a Milano quel gior­no: bisognò aspettare la fine, e far­selo raccontare dai giocatori, per conoscere il risultato esatto di un incontro che nessuno aveva visto.

Ma l’arbitro, lo jugoslavo Damijani, accolto da un paio di giorni a Mila­no come un pascià, colmato di gentilezze e di piccoli cadeau tanto per tenerselo buono, diresse impavidamente fino in fondo un match, del quale, anche lui, ben poco poteva aver visto. E stilò un referto che fece passare per «buona» una delle partite più fasulle di tutta la storia della «Coppa Rimet»… Dunque, ce l’avevamo fatta. Battuti i portoghesi, per accedere alla fase finale in Svezia sarebbe bastato agii azzurri bissare il pari già ottenuto a Belfast nella famigerata «amiche­vole» delle botte.

La Nazionale, profondamente rinnovata rispetto al disastro di Lisbona, si stava compor­tando niente male, Ghiggia e Schiaf­fino, campioni del mondo nel 1950 in Brasile con la camiseta dell’Uruguay destavano molte speranze, Gratton era in gran spolvero, Piva­telli segnava con incoraggiante con­tinuità. Insomma: la partita-bis di Belfast nasceva sotto il segno della fiducia. Invece…

Cominciò subito la sfortuna a met­terci lo zampino: alla vigilia della partenza da Bologna (sede del ra­duno: allora imperava il dr. Pasqua­le, ricordate?) per Milano, dove la comitiva sarebbe salita sull’aereo per Belfast, Gratton fu colto da un tremendo mal di gola con febbre e nessuna cura fu in grado di rimet­terlo in sesto. Foni, non sapendo che pesci pigliare, ebbe una pensata che si doveva poi rivelare disastrosa: chiamò in fretta e furia un altro oriundo (ovviamente fasullo), il bra­siliano Dino Da Costa, che giocava nella Roma e varò la famosa linea con quattro stranieri (se vogliamo chiamare le cose con il loro nome). Precisamente: Ghiggia, Schiaffino, Pivatelli, Montuori, Da Costa. Si do­veva cercare il pareggio, si andò in campo con quattro punte e un solo centrocampista, per di più di squi­site tendenze offensive: Pepe Schiaf­fino…

E fu il disastro. Zsolt (che questa volta era arrivato per tempo, men­tre il portiere titolare irlandese, Gregg, era rimasto bloccato a Lon­dra dalla solita nebbia e fu sostituito da una strampalata figura di ubria­cone ormai trentacinquenne che si trovava a Belfast per caso, la riserva Uprichard…), dicevo Zsolt diede una mano all’Irlanda sbattendo fuori dal campo Ghiggia, reo di un tentato fallo ai danni del terzino McMichael, una specie di macellaio che lo stava torturando dal principio della parti­ta.

Perdemmo per 2 a 1. Segnarono per loro Mcllroy e Cush (fior di giocatori, che militavano nella pri­ma divisione inglese), per gli az­zurri andò a bersaglio Da Costa in questo modo. Palla fra i piedi del brasiliano a non meno di trenta­cinque metri dalla porta. Non sapen­do cosa fare, Da Costa eseguì una specie di passaggio al portiere, tanto per sbarazzarsi della sfera. Uprichrad si inginocchiò per raccogliere a due mani, poi si lasciò passare la sfera in mezzo alle gambe fra le ri­sate generali. Riuscimmo a perdere contro una Nazionale che aveva un portiere del genere.

Battuti, eliminati dal mondiale: era la prima volta nella storia del calcio azzurro, due volte campione nel 1934 e nel 1938… Ricordo nitidamente: la sera, una sera uggiosa, piena di nebbia, di pioggia, di strade deserte e silenziose, non potendone più uscii dall’albergo, sfidando gli ubriachi irlandesi. Vedo tre ombre che mi vengono incontro, mi prende una fifa maledetta, respiro: erano tre az­zurri che cercavano, come me, un poco di tranquillità passeggiando. Precisamente gli interisti Vincenzi e Invernizzi e lo juventino Corradi. Mi accodai senza parlare, io tacevo loro non aprivano bocca, finalmente Vincenzi sbottò in una imprecazione: «Porco… Quel Foni proprio me do­veva venire a pescare per farmi pas­sare sto guaio… Alla Nazionale non avevo un solo capello che ci pensas­se e adesso immagina cosa succede­rà al ritorno in Italia…». E invece neppure il disperato Vin­cenzi poteva immaginare quello che sarebbe successo.

Andiamo per or­dine. Mattina del 16 gennaio 1958, il giorno dopo la disfatta. Gli azzur­ri debbono ripartire per l’Italia, ma l’aeroporto è chiuso per la nebbia. Pare che da Dublino si possa de­collare, Barassi decide di portare la comitiva in treno fino a Dublino, poi di tentare la sorte. Alle 10,30 siamo tutti in stazione, gli azzurri prendono posto in un vagone deser­to, sale per ultimo l’ing. Ottorino Barassi, presidente federale, altra figura di primissimo piano del cal­cio internazionale. Mi avvicino per salutarlo e Barassi, inattesamente, mi prende per un braccio, mi tra­scina sulla piattaforma del vagone e dice: «Senta avrei alcune cose da dire. Le interessa?». Figuratevi!

E Barassi comincia la più incredibile intervista di tutta la storia del calcio azzurro (fate mente locale: era il presidente della Federazione quello che stava dicendo ciò che vi racconto ora, mica l’ultimo tirapiedi!). Dunque, (cito testualmente), Barassi esordisce così: «Abbiamo perduto l’autobus dei mondiali e la cosa è indubbiamente grave. Io ritengo che sia venuto, direi quasi finalmente, il momento di ricominciare tutto daccapo. Ora non siamo più niente, abbiamo una Nazionale da rifare, un prestigio da ricostruire. Dovremo lavorare sodo: ma potremo farlo soltanto se l’am­biente attorno a noi sarà passabil­mente tranquillo». E continua, sempre con voce molto calma e controllata: «Il dottor Fo­ni ha un contratto che lo lega alla Federazione fino al luglio prossimo. Si tratta di un contratto stipulato dal dottor Pasquale quindi non ri­cordo i termini precisi (nota bene: Barassi era il presidente federale, figuratevi se non conosceva i ter­mini del contratto dell’allenatore della Nazionale!). Certo la posizio­ne di Foni si è fatta delicata: non mi stupirei se ci fossero novità al suo riguardo prima del luglio».

E poi: «Foni è un tecnico molto preparato, esperto del calcio estero, ma riten­go non sia adatto a condurre una squadra sul campo. E’ un bravo generale, ma certe volte sono più utili i sergentacci che vengono dal­la gavetta e sanno trasfondere il lo­ro spirito alla truppa. Foni potreb­be risultare utile al Centro Tecnico, per insegnare calcio. Ma per la Na­zionale, lo confesso, ho già comin­ciato a pensare a qualcun altro. Rocco, del Padova, è un uomo mol­to in gamba, ma c’è Ferruccio Valcareggi che mi piace moltissimo. Seguo il suo lavoro da tempo, ne sono estremamente soddisfatto». (Parentesi: era la prima volta, nel 1958, che si faceva il nome di Valcareggi per la Nazionale: e Valcareggi, allora, allenava il Prato, Se­rie C! Una autentica bomba).

Ma andiamo avanti ascoltando Ba­rassi: «Per ricostruire la Nazionale bisognerà puntare sui giovani, but­tando a mare quella zavorra che ci portiamo appresso da tempo». La zavorra erano gli oriundi, tenace­mente voluti da Giuseppe Pasquale, antagonista non ancora dichiarato, ma temibilissimo, di Barassi. «Ci sono infatti delle situazioni che non mi hanno mai trovato consenziente. Schiaffino, ad esempio, gio­ca in Nazionale per un cumulo di motivi che non tutti conoscono. Spuntò improvvisamente a Roma contro l’Argentina quando nessuno se lo aspettava. Il dottor Pasquale, evidentemente per favorire i diri­genti del Milan, fece in modo che ci si trovasse di fronte al fatto compiuto. Presso a poco quello che accade con Montuori, che fu portato in Brasile perché giocasse la terza partita in azzurro, quella che lo ha fatto diventare «italiano» ad ogni effetto, favorendo la Fiorentina che poté così tesserare un altro oriun­do. E sono proprio il Milan e la Fiorentina le due società che più assillano la Federazione con le lo­ro pretese. Sono stati questi favori­tismi che ci hanno costretto a ve­nire a Belfast in una data così avanzata perché bisognava attendere che scadessero i tre anni di permanen­za di Schiaffino in Italia, come da regolamento internazionale, per poterlo schierare in Nazionale».

C’era da non credere alle proprie orecchie, ma Barassi non aveva an­cora vuotato il sacco. Conclude co­sì: «Tornando a Foni, debbo dire che se l’era presa con troppo co­modo; è troppo semplice e poco efficace andare a vedere qualche partita di campionato la domenica, il lavoro da fare è ben altro!». Fine. Il treno si mette in moto, io resto a Belfast per telefonare in Italia il servizio che si abbatte sul calcio azzurro come una valanga. Barassi, evidentemente, aveva cre­duto fosse giunto il momento di sbarazzarsi della troppo invadente presenza di Pasquale, che lui aveva capito benissimo dove voleva arri­vare: a sedersi al suo posto. Scelse dunque me, per avere una cassa di risonanza alle sue accuse, dirette soprattutto alla persona di Pasqua­le, più che a Foni (la cui sorte si era decisa sul campo, come sempre accade in Italia) o alla Fiorentina o al Milan.

Che, ovviamente, respin­sero ogni addebito, così come Ba­rassi, non appena messo piede in Italia, tentò una tiepida smentita («le mie dichiarazioni sono state fraintese…» eccetera eccetera). Io replicai, fu chiarissimo a tutti che soltanto un folle avrebbe potuto in­ventarsi una intervista del genere e il risultato fu ben diverso da quello che Barassi aveva sperato: restò Giuseppe Pasquale, restarono gli oriundi, se ne andò lui, Barassi. Che, infatti, fu costretto da Onesti, dopo il famoso discorso dei «presidenti ricchi scemi», a dare le dimissioni per far posto al commissario straor­dinario Bruno Zauli, segretario ge­nerale del CONI, mentre il nemi­co Pasquale, manovrando con la sua diabolica abilità, riusciva a far­si nominare commissario straordi­nario alla Lega Nazionale, allora autentico centro di potere.

Zauli la­sciò di lì a poco l’incarico asse­gnatogli da Onesti a Umberto Agnel­li che fu nominato presidente della FIGC, mentre l’invitto Pasquale, alla testa dei «giovani turchi», fra i quali Spadacini e Mandelli, diventava in pratica, il vero padrone del calcio italiano. In quella nebbiosa mattinata a Bel­fast Ottorino Barassi non avrebbe mai immaginato, parlando con me, di lanciare un boomerang che lo avrebbe fulminato dopo moltissimi anni di dispotico governo federale.

di Alfeo Biagi

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