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L’8 giugno 1892 nasce a Graffignana, comune della Lodigiana, Giuseppe Campari, anima in precario equilibrio e pilota automobilistico. La velocità in quei primi anni del Novecento non era ancora diventata un affare sociale. Correvano tutti, i nobili e i meccanici, gli ingegneri e i garzoni, le donne e gli uomini, i baritoni e i banchieri. Quella smania contagiava cronisti e pittori, artisti e impiegati, pensatori e politici. Si lasciavano stregare dal graffio dell’aria, dall’enorme tensione del volante e da quel pedale rigido e lungo che, quando affondava la sua corsa sino in fondo, faceva urlare il motore al cielo scodando sulla ghiaia in un vortice di breccia, polvere e sassi.

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Le corse d’auto erano un fenomeno frequentato e popolare, sentito e sognato, più della nobile arte pedatoria, dell’atletica o della marcia. Perché le auto volavano sui selciati e sulle strade, sfioravano il quotidiano, sfidavano apertamente la lentezza di quel mondo antico facendo assaporare e intuire la bellezza furtiva di un futuro che si preannunciava esaltante e ringhioso quanto e più del rumore che si lasciavano in scia. Quell’automobilismo d’assalto e leggendario, al di là dei suoi eroi, non sopravvisse a quella grande stagione. Si spense, al pari delle speranze, in un’Italia tradita da un benessere predicato e mai conseguito, rimanendo per decenni l’ombra di una promessa, un inganno collettivo, dolce, sopito e crudele. Ma quella stagione, tra comparse e comprimari, conobbe anche molti fragili eroi e grandi leggende. Come Borzacchini, Nuvolari, Brilli Peri, Varzi, Ferrari, Ascari e Maserati. Come anche Giuseppe Campari da Graffignana, “el negher” per amici e avversari. A Giuseppe piaceva la vita, il bel canto, i motori, le sfide, la cucina e le strade. Era diventato collaudatore in Alfa dove si era fatto apprezzare per l’innata capacità di domare quei pesanti e instabili siluri d’acciaio su quattro ruote. Non era l’aria che sferzava il volto, che schiacciava gli occhialoni, che spingeva il berretto all’indietro quasi volesse strappare la testa dal collo. Non era nemmeno la pioggia che bruciava la pelle o il sole che accecava e confondeva l’orizzonte. Domare quei pesanti mostri significava mangiare e sputare polvere, come e più di un manovale in un cantiere stradale. Campari, il suo soprannome, lo doveva proprio a questo. Perché quando, dopo una giornata di prove, infine scendeva dalle auto che aveva testato era ricoperto di polvere e sabbia da capo a piedi ed aveva cambiato colore. E allora si ripuliva come poteva con il suo solito fazzoletto color cremisi e si infilava in qualche osteria a cercare compagnia, a rimediare vino e agnoli per fare notte, tra belle arie e romanze.

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Per Campari la lirica non era soltanto una passione. Era un modo di vivere e guidare. Più del virtuosismo gli apparteneva il respiro agrodolce del melodramma, della tragedia, di quel modo leggero e inquieto di accarezzare dossi e curve, dove peraltro era solito regalare brividi, emozioni e spettacolo. Perché Giuseppe era l’unico a cui riusciva la magia, l’unico in grado di cambiare marcia in frenata senza grattare, spingendo la frizione sino alla fine del mondo per due volte in rapida sequenza, in una sorta di diabolica doppietta. Sfidava la polvere e passava leggero volando sugli sterrati, scodando e fendendo il muro di gente che, trattenuta a stento dalla milizia, si rassegnava ad inseguirne tramortita il profilo sino a scivolare nel suo cono d’ombra. Campari era la velocità e tutto quello che le si poteva chiedere. Giuseppe era naturalmente dotato di una forza poderosa, aveva capelli neri e un corpo ricoperto da una fitta coltre di peluria. Era un baritono prestato al volante. Si portava appresso una voce discreta, un fisico rotondo e imponente, baffi volitivi, occhi scuri e profondi e, soprattutto, un coraggio da leoni. Sposò una cantante e provò anche a salire su di un palco in una notte d’opera al teatro Donizetti di Bergamo, cimentandosi nella «Traviata», il suo cavallo di battaglia, e rimediando ben pochi applausi e, pare, qualche aperta contestazione, perché, si sa, che i loggioni dei teatri mica si lasciano affascinare troppo dai miti. Forse anche per questo Campari divenne un asso del volante. Raccolse i suoi migliori e più esaltanti successi sul finire degli anni venti, quando ormai si cominciava a sentire il sordo e cupo rimbombo di un destino ineluttabile. Per tre anni sbaragliò la concorrenza di Nuvolari, Mazzotti, Strazza, Bornigia, Morandi e Varzi conquistando a ripetizione due edizioni della Mille Miglia, la Coppa Acerbo ed una manciata di Gran Premi, tra cui quello attesissimo di Francia per la “gioia” dei cugini transalpini.

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Si era ormai avviato ad entrare negli annali, a raccogliere i frutti della sua migliore stagione. Chissà dove sarebbe arrivato se il destino non gli avesse teso un tranello, se non lo avesse attirato nella trappola ordita da quella maledetta macchia d’olio durante il Gran Premio di Monza, nel tempio della velocità. La Duesenberg del conte Trossi rompe infatti il motore e inonda la pista di olio nel punto peggiore del tracciato, alla staccata della curva Sud, dove le monoposto arrivano alla massima velocità. In quel punto il macadam, reso già scivoloso per la pioggia, diventa una lastra di ghiaccio. Campari guida il plotone davanti al temibile e veloce Borzacchini, il pilota che di nome fa Baconin e che ogni volta imbarazza i gerarchi fascisti che lo devono premiare. Sono due compagni di scuderia, due colleghi, due anime inquiete e due strepitosi acrobati. Ma a quella velocità e in quelle condizioni precarie la bravura non serve a niente. Le due Alfa perdono aderenza, i due piloti lottano disperatamente con la gravità, poi scivolano lungo la tangente, si sfiorano e finiscono tragicamente fuori pista terminando la loro corsa nel fossato. Campari muore sul colpo, Borzacchini si spegne di lì a poco in ospedale. Nonostante le sonore proteste degli spettatori la gara continua crudele e feroce senza fermarsi, sino in fondo, come la vita e le inconsapevoli esistenze che la circondano.

 

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QUANDO CANTAVA IL NEGRO DI LODI


Pomeriggio del 10 settembre 1933, Autodromo di Monza. Si è già svolto in mattinata il Gran Premio d’Italia, e ora si stanno preparando i concorrenti per il Gran Premio di Monza, che prevede tre batterie di 14 giri di pista ciascuna, per complessivi 63 km, ed una finale di 22 giri (99 km) alla quale saranno ammessi i primi quattro classificati di ogni batteria.
Dei dieci iscritti alla prima batteria, se ne avviano alla linea di partenza soltanto otto: Trossi sull’attesissima Duesenberg, iscritta dalla Scuderia Ferrari, Premoli su MBP (sigla che sta per Maserati-Bugatti-Premoli), Straight su Maserati, Moll, Pages e Bonetto su Alfa Romeo, Czaykowski e Battilana su Bugatti. Nuvolari (Maserati) e Siena (Alfa Romeo), troppo provati dalla gara del mattino, hanno dato forfait. Alle 14,10 in punto S.E. Starace da’ il via, Premoli, Straight e Trossi balzano in testa, mentre Pages alla prima curva finisce direttamente fuori strada, fortunatamente senza danni. I giri si susseguono, il pilota francese conte Czaykowski, d’origine polacca, alla sua prima gara in Italia, passa al comando. Al settimo giro Trossi giunge rallentando e si ritira. Si saprà poi che per avaria ad un pistone il carter del motore si era sfondato, inondando d’olio l’imbocco della curva sud. Non sembra un evento di fondamentale importanza: il pilota non si è fatto niente, la gara è proseguita indisturbata, e si è conclusa con la vittoria di Czaykowski, mentre il giro più veloce l’ha compiuto il giovanissimo Moll.
Finita la prima batteria, contemporaneamente all’arrivo di S.A.R. il Principe Umberto, una vettura chiusa si avvia sulla pista con una lunga scopa sporgente dal finestrino. Gli organizzatori con questo espediente intendono eliminare l’olio uscito dalla Duesenberg di Trossi: dopo la scopa (che non sembra a priori il mezzo migliore per spazzare via un liquido vischioso da una superficie) viene anche sparsa sul luogo della sabbia. Qualche minuto dopo arrivano i concorrenti della seconda batteria. Campari, su Alfa Romeo, e Borzacchini, su Maserati, sono molto applauditi, quasi quanto la signorina Helle Nice, compagna di squadra di Campari. Si allineano alla partenza anche Balestrero, Barbieri, Castelbarco e Pellegrini, tutti su Alfa Romeo. Alle 15 precise Starace da’ il via. Balzano in testa Campari, Borzacchini e Barbieri. Spariscono rombando dalla curva nord e il pubblico, tutto insieme, si volge a guardare dal lato opposto aspettandosi di vederli comparire dalla curva sud. Però non succede niente. Appare il solo Balestrero, seguito da Pellegrini e poco dopo dalla Helle Nice. Quindi, nessuno. L’attesa si fa via via spasmodica, poi ricompaiono Balestrero e gli altri due, facendo il segno di qualcuno che si è rovesciato. Gli addetti al posto di soccorso alla curvetta del circuito stradale si avviano di corsa verso la curva sud della pista. Da altre parti, lontano, sui prati, si vedono persone accorrere: spettatori, qualche milite. Balestrero ripassa per la terza volta e quasi si ferma davanti alla cabina dei cronometristi. Lo si vede gesticolare vivacemente, e ripartire con un gesto di disperazione. Rallenta quindi anche davanti ai box, pressato dai suoi che chiedono notizie. E quindi, con gli altri due piloti, riprende la corsa, continuando regolarmente, come schiavi alla catena, i previsti 14 giri. La stessa Helle Nice, impietrita al volante come una statua, continua a correre, passando e ripassando per quella stessa tragica curva. Tragica davvero, perché, ormai la voce si è sparsa di bocca in bocca, in essa hanno trovato la morte i due campioni italiani, Campari e Borzacchini, uno sul colpo, l’altro venti minuti dopo all’Ospedale di Monza. E mentre il pubblico fischia e smania per avere notizie, non volendo credere ad una tragedia così immane, l’altoparlante, con una colossale mancanza di tatto, si affanna per far interessare la folla alla sorte del settenne Tognasso, prima perduto poi ritrovato dagli ansiosi e distratti genitori. Il pubblico viene addirittura invitato a “non credere alle voci correnti non autorizzate”.

Nonostante gli sforzi degli organizzatori però, per quella consueta inspiegabile comunicazione a tam tam, tutti sanno tutto, e l’incidente occorso comincia a delinearsi con spaventosa chiarezza.
Appena dopo la partenza i corridori si erano divisi in due gruppi. In testa Campari e Borzacchini, seguiti a brevissima distanza da Castelbarco e da Barbieri, e quindi dagli altri tre. La gara si svolgeva sulla pista che è costituita da due rettilinei congiunti da due ampie curve rialzate, la prima a nord appena finito il rettilineo del traguardo, la seconda a sud terminante sullo stesso rettilineo. Appena all’inizio della curva sud, pressappoco dove si era sparso l’olio della Duesenberg, Campari, che in quel momento era sulla destra, si porta sulla sinistra, verso il rialzo della curva, arrivando ad un soffio dall’investire a folle velocità il semaforo n. 15. Tenta forse una sterzata in extremis, ma rimane per un buon tratto sull’orlo della pista. Traccia di questo passaggio al limite rimane nel blocco di cemento demolito, dopodiché la rovinosa caduta dalla scarpata nel fossato sottostante. Borzacchini, che per tentare di sorpassare Campari doveva tenersi necessariamente sulla sinistra, si vede chiudere la strada proprio dal compagno, e nel tentativo disperato di evitarlo perde il controllo della vettura e vola oltre il prato. Terzo sopraggiunto, Castelbarco, stesso copione: l’arrivo in velocità, il tentativo di sterzo in curva, la perdita di controllo della macchina, il volo fuori strada. Solamente Barbieri, quarto coinvolto nell’incidente, riesce a tenersi a destra e a uscire di strada meno catastroficamente, essendo da quel lato il prato allo stesso livello della pista. Gli altri tre, Balestrero, Pellegrini ed Helle Nice, come abbiamo visto continuano la corsa, anzi il secondo giro dopo la tragedia Balestrero fa registrare la velocità più alta (179,428 km/h). Intanto gli accorsi cercano di rianimare Campari, trovato schiacciato sotto la macchina capovolta, ma è inutile. Borzacchini da’ segni di vita, ed è portato immediatamente all’Ospedale di Monza, dove spira dopo poco, per schiacciamento del torace, frattura della colonna vertebrale ed emorragia interna.
Castelbarco non si è invece fatto quasi nulla: solo una ferita al mento subito medicata, tanto da recarsi egli stesso alla radio e rassicurare direttamente il pubblico sulla sua sorte. Questa comunicazione non fa che indispettire maggiormente gli spettatori, che continuano a non avere ricevuto alcuna comunicazione ufficiale sul destino dei due campioni. Fino alla fine della gara infatti non viene detta nemmeno una parola. I fischi diventano assordanti quando lo speaker, come se nulla fosse, esorta il pubblico a non invadere la pista “per evitare che si verifichino inutili disgrazie”. L’espressione, con due morti sulla pista, pare, ed è, davvero infelice.
Finita la seconda batteria con la vittoria di Balestrero, dovrebbe partire la terza batteria. Passano i minuti, passa mezz’ora, poi un’ora, senza che nulla succeda. Poi si
vedono cinque concorrenti (Ghersi su Bugatti, Biondetti su Maserati, Cornaggia su Alfa Romeo, Lord Howe su Bugatti e Lehoux su Bugatti) allinearsi al traguardo. Ma ancora non partono. Addirittura ad un dato momento lasciano le macchine e si avviano a piedi verso gli Uffici della Direzione dell’Autodromo. Si saprà in un secondo tempo che, a scanso di contestazioni, gli organizzatori fanno loro firmare una dichiarazione in cui si attesta la loro volontà di continuare la gara nonostante l’incidente di poco prima. E finalmente, con un’ora e dieci di ritardo, è data la partenza. L’incubo sembra ricominciare quando Ghersi al sesto giro fa un testa coda nel solito posto della curva. Fortunatamente riprende il controllo e finisce addirittura secondo, dopo Lehoux. Infine, per le 18, è fissata la finale di questa gara che sembra interminabile, verso cui nessuno ha più interesse ma che ci si condanna a voler concludere. Si allineano alla partenza Straight, Moll, Bonetto, Czaykowski, Biondetti, Balestrero, Helle Nice, Ghersi, Lehoux, Pellegrini e Cornaggia. La lotta per la vittoria, si capisce fin dai primi giri, è tra Lehoux e il conte polacco, e continua acerrima fino all’ottavo giro quando passa Lehoux che davanti a box fa un gesto che fa accapponare la pelle a tutti gli astanti. E’ lo stesso gesto con cui Balestrero tentava di far capire che vi erano delle macchine capottate. Difatti, dal luogo della solita, sinistra, maledetta curva sud, si eleva una colonna di fumo nero. E’ Czaykowski, stavolta, che ha sbandato. La vettura si è rovesciata, incendiata, ribaltata ancora precipitando dalla scarpata. Per il pilota, imprigionato nella vettura in fiamme, non c’è più niente da fare.
Neanche di quest’ultima tragedia viene data ufficiale comunicazione, ma si decide di ridurre il percorso a 14 giri, anziché i 22 previsti dal regolamento. Lehoux vince, tra l’indifferenza dei più, la costernazione di pochi.


Il R.A.C.I., organizzatore della gara, diramò nei giorni successivi un comunicato ufficiale, che diceva: “Gli incidenti verificatisi al circuito di Monza durante il VI Gran Premio di Monza, e precisamente durante la seconda batteria e la finale della gara, secondo una prima indagine sono dovuti tutti e tre ad eccesso di velocità con le conseguenze derivanti dalla impossibilità di tenere la curva, la quale consente velocità fino ad un certo punto e non tutte le velocità”. E quindi proseguiva aggiungendo: “Può avere contribuito a rendere più difficile un altro elemento, quello cioè dell’umidità della pista tenuto conto dell’acqua venuta giù ad intermittenza. Da qualche spettatore si è accennato anche alla possibilità che l’incidente possa essere dipeso da eventuale spargimento di olio da una macchina che aveva corso nella precedente batteria – da notarsi l’attribuzione ad un anonimo spettatore, ossia ad un elemento insignificante dal punto di vista tecnico, di una ipotesi più che fondata – Tale versione è esclusa dal fatto che gli incidenti si sono verificati, seppure nelle vicinanze, alcuni metri fuori dalla zona dove l’olio è stato rilevato, e dalla considerazione che le altre macchine partecipanti alla gara hanno continuato e finito la gara stessa ripassando tutte le volte sul medesimo tratto senza inconveniente alcuno”. Insomma signori, la situazione è chiara: se si fossero ammazzati tutti e venti i concorrenti a distanza millimetrica l’uno dall’altro, se ne poteva parlare, ma così…è chiaro che è stata una fatalità.

La Procura del Re di Milano istituì un’istruttoria sui fatti. Vennero nominati tre periti tecnici nelle persone degli ingegneri Filippo Tajani, Piero Benzi e Mario Ferraris i quali presentarono all’inizio di ottobre la loro perizia collegiale. Conclusioni: non potersi procedere contro alcun responsabile, per assoluta mancanza di elementi di colpa. Gli incidenti erano avvenuti in seguito alle mutate condizioni della pista, tali da non consentire – specialmente nel punto dove la triplice sciagura si produsse – le più elevate velocità alle quali presumibilmente si spinsero i disgraziati corridori, vittime del loro ardimento. Perciò, chi è causa del suo mal pianga se stesso.


Il più illustre dei tre caduti era sicuramente Giuseppe Campari, un gigante buono, sperimentato e valentissimo pilota Alfa Romeo, che vantava al suo attivo più di trenta vittorie assolute, alcune delle quali di assoluto prestigio anche internazionale, due titoli di Campione Italiano (1928 e 1931), un’affermazione di qualche settimana prima al Gran Premio di Francia a Monthléry che ne aveva rinverdito l’immagine di grande pilota. Un personaggio imponente, innanzitutto per la mole, per lo stile di guida, più vicino a quello di Lancia (a cui lo accomunava il fisico poderoso) che a quello elegante e preciso di Nazzaro, per il carattere gioviale e compagnone. Ma per tutta la vita fu come sottovalutato, meno considerato dei suoi avversari, come Antonio Ascari, o Tazio Nuvolari, a cui non era certo inferiore. Forse contribuì la sua bonarietà, la sua consapevolezza di venire dal popolo, di non sapersi comportare al cospetto delle autorità, di mancare di educazione (il che non era vero) o di istruzione. In realtà fu un grandissimo corridore perché tra i pochi a possedere un bagaglio tecnico invidiabile, avendo sviluppato le sue capacità di pilota grazie ad un lungo tirocinio da collaudatore. Nutriva molte altre passioni, oltre alle corse: per il bel canto e la lirica, innanzitutto, tanto da aver sposato la cantante Lina Cavalleri, quasi omonima della più celebre Lina Cavalieri, e da esibirsi in pubblico nella Traviata ed altre opere.
La stampa automobilistica, alla morte, unì il suo nome a quello delle altre due vittime in necrologi retorici ed altisonanti, ma non vi fu un solo giornalista che ne rievocò la figura e la carriera in articoli successivi all’incidente. Charles Faroux, il più autorevole dei giornalisti automobilistici francesi, l’aveva definito alla vigilia del Gran Premio di Francia del 1933 (vinto proprio da lui) un “vétéran souvent, vainqueur naguère” ossia un veterano che non vince mai. E aveva proseguito sul suo conto aggiungendo impietosamente: “Pour Campari, on peut déjà craindre l’age, parce que c’est une épreuve veritablement athlétique que de mener à toute volée, pendant 500 km, un de ces petits monstres d’acier” (sarebbe meglio che Campari tenesse conto della sua età, perché guidare a folle velocità uno di questi piccoli mostri di acciaio è una prova squisitamente atletica). Lo stesso Ferrari, nel rievocarne la figura nel suo “Piloti che gente” ripercorre episodi che lo mettono in burletta, anche se poi riconosce che “non era soltanto un pilota di eccezionale valore ma anche un combattente indomabile, un uomo che pur di vincere non badava al rischio, come neppure a tanti altri accorgimenti”. E quindi spiega: “Alle prove della Mille Miglia del 1928 ero con lui in macchina al Passo della Raticosa. I nostri sedili erano due semplici baquets, come venivano chiamati a quel tempo, sedili cioè fissatiad un semplice traliccio a sua volta ancorato con filo di ferro e quattro bulloni al telaio. E appunto, dal pavimento di legno, cominciarono a sprigionarsi schizzi che ci arrivarono al volto. Superando l’urlo del motore, gridai a Campari: “Non vorrei che si fosse rotto un manicotto! Fermiamoci a guardare!” Non mi rispose. Lo osservai sbalordito. Che razza d’uomo era, per trascurare un pericolo del genere? Lo osservai da capo a piedi, e così mi accorsi che dalla tuta sempre troppo corta uscivano dal fondo lunghe mutande di percalle, assicurate con una fettuccia alle calze. Ed era proprio da qui che fuoriusciva quel liquido che poi rimbalzando sui vortici d’aria irrorava l’abitacolo. Sgomento, mi rivolsi al mio compagno in milanese, sapendo che a questo avrebbe risposto. “Peppin – urlai – se gh’è?” E lui: “Ohé, te vurrett minga che me fermi intant che sunt in allenament? Bisugna pur allenass a pissass adoss”.
Campari era anche questo: certamente non un damerino, grezzo, determinato e testardo. Ma tutt’altro che personaggio farsesco o da macchietta, come invece fu considerato fin troppe volte a cominciare dal soprannome vagamente dispregiativo che gli fu appioppato (“el negher”). La sua biografia ne è evidente prova.
Nasce a Lodi l’8 giugno 1892 e a Milano si stabilisce fin da ragazzo. Apre una piccola officina, che abbandona appena l’Alfa Romeo gli offre un posto da meccanico. Nel 1920 si afferma con un’Alfa al Circuito del Mugello, dimostrando ai suoi superiori che in lui non c’è soltanto la stoffa del collaudatore, già molto apprezzato, ma anche quella del pilota. Di questa prima prova l’Alfa non si dimentica. Quando costituisce nel 1923 la sua squadra ufficiale Campari è chiamato a farne parte, insieme ad Antonio Ascari e Ugo Sivocci. Passa un anno, e per Campari arriva la consacrazione più inattesa e straordinaria, che lo pone alla ribalta dello sport automobilistico internazionale: la vittoria al Gran Premio di Francia a Lione (particolare curioso: la sua carriera si apre nel 1924 e si chiude nel 1933 proprio con una vittoria al Gran Premio di Francia). Nel 1925 prosegue la sua carriera di pilota Alfa Romeo, insieme ad Ascari e Gastone Brilli Peri, che si laurea proprio quell’anno vincitore del primo Campionato del Mondo (vedi Auto d’Epoca del dicembre 2000), anche l’affermazione è oscurata dalla morte inaspettata di Ascari sul circuito di Monthléry (vedi Auto d’Epoca del novembre 1995). Il 1926 fu invece l’anno della Bugatti. Ritiratasi temporaneamente l’Alfa Romeo, mutata la formula con la riduzione della cilindrata massima da 2000 a 1500 cc, restano sulla breccia soltanto le francesi Bugatti e Delage, a cui si aggiunge, con scarsa fortuna, l’italiana OM, con la sua nuova 8 cilindri 1500 sovralimentata. L’Alfa Romeo ritorna alle corse già nel 1927, e difatti Campari si impone d’autorità, ad oltre 104 km/h di media, alla Coppa Acerbo sul circuito dell’Aterno, su un’Alfa 2 litri.
Doveva però essere il 1928 l’anno più felice nella vita di Campari. Cominciò trionfando in coppia con Ramponi sulla piccola Alfa 1500, alla Mille Miglia. Con lo stesso modello vince la classe 1500 alla Targa Florio un mese più tardi, quindi conquista il primato sul giro alla media oraria di 175 km/h al Circuito di Cremona e segna il record di 217,6 km/h sui 10 km lanciati. E’ primo assoluto alla Susa Moncenisio, ed è ancora primo assoluto, a quasi 110 km/h, alla Coppa Acerbo, con il giro più veloce ad oltre 121 km orari. Tanto basta per essere proclamato CampioneAssoluto d’Italia per il 1928. Il 1929 e il 1930 non furono anni prodighi di successi come i precedenti, anche se nel 1929 Campari si impose nuovamente alla Mille Miglia, di nuovo in coppia con Ramponi, precedendo di dieci minuti il secondo (Morandi-Rosa su OM), di dodici minuti i propri compagni di squadra Varzi – Colombo e di un’ora Minoia-Marinoni, anch’essi su Alfa Romeo. Le restanti gare, Targa Florio, circuito del Mugello, circuito del Montenero, per quanto condotte con tenacia e maestria, non lo videro protagonista. Si cominciò addirittura a dire che Campari stesse pensando ad un abbandono dei campi di gara; che avesse accettato una scrittura teatrale che l’avrebbe portato ad esibirsi come cantante nei teatri di Milano, Torino, Genova ed Alessandria. Non c’era molto di vero in queste voci: e difatti Campari non abbandonò affatto le corse. Anzi, intensificò le sue partecipazioni sportive nel 1931, un anno che fu di transizione e incertezza per organizzatori, piloti e costruttori. Infatti, sperimentate le formule del peso e del consumo, l’Associazione Internazionale degli Automobili Clubs decise di adottare una formula libera, prescrivendo solamente la durata massima e minima dei gran premi (non meno di cinque, non più di dieci ore). L’Alfa mise in cantiere una 8 cilindri di 2300 cc, la Bugatti una vettura da 2300 e una seconda da 4900 cc, la Maserati una 1500 e una 2900 a 8 cilindri, la Mercedes una versione migliorata della 7 litri a 6 cilindri. L’Alfa Romeo aveva anche approntato sperimentalmente una 12 cilindri costituita da due motori affiancati di 1750 cc, con compressore, un mostro da 220 cavalli. Al Gran Premio d’Italia di quell’anno Campari, in coppia con Nuvolari, vince con la 8 cilindri, una superba affermazione conseguita a poco meno di 156 km/h. Con la nuova 12 cilindri si impone invece alla Coppa Acerbo sul circuito di Pescara, e arriva secondo assoluto, su Maserati, al Gran Premio d’Irlanda sul circuito di Dublino (gara corsa con un occhio bendato, conseguenza di un sasso che l’aveva colpito in viso). Per la seconda volta, al termine della stagione, Campari é proclamato Campione Assoluto d’Italia.
Il 1932 non fu un anno particolarmente fortunato, e non segnò vittorie di rilievo. Sembrò aprirsi con tutt’altro slancio il 1933, con la splendida affermazione sull’autodromo di Monthléry nel Gran Premio di Francia. Ma pochi mesi dopo, al Gran Premio di Monza, la lunga carriera agonistica di Giuseppe Campari terminò.
In pochi anni il numero dei piloti italiani di valore internazionale si era paurosamente assottigliato. Per primo era caduto Ascari, nel 1925, poi Masetti, sul circuito delle Madonie, nel 1926, Bordino e Materassi, rispettivamente ad Alessandria e a Monza, nel 1928, Brilli Peri a Tripoli nel 1930, Arcangeli a Monza nel 1931. E ora era stata la volta di Campari e di Borzacchini: otto campioni in otto anni, una strage. E poco importa che Nuvolari, l’unico che abbia desiderato fino all’ultimo di morire in corsa senza riuscirci, fosse solito dire: “I più grandi piloti muoiono in corsa”.

Donatella Biffignandi
Centro di Documentazione del Museo Nazionale dell’Automobile di Torino
(2003)

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  • 5 months later...

Campari, il compagno fidato di Ascari. Insieme corsero quella famosa stagione del '24 dove il lodigiano vinse il titolo e battendo sulla spalla del compagno disse "Dai che il prossimo anno è tuo". Parole fatidiche se non fosse stato che Antonio (Ascari) morì al GP di Francia a Monthlery lasciando orfana l'Alfa Romeo di uno dei suoi 2 grandi alfieri. Anche Nuvolari venne vagliato dalla direzione corse per poi essere scartato perché non 'abbastanza valido' (di li a 10 anni si dovevano mangiare le mani) e alla fine per il GP di Monza venne scelto (e strappato alla Duesenberg) Peter De Paolo, futuro Campione di F.INDY (AAA) e nipote della leggende Ralph De Palma (Campione AAA 1912 e 1914. L'unico italiano (prenderà la nazionalità USA solo nel 1920) ad aver portato all'Italia i 2 titoli INDY che abbiamo vinto in oltre 110 anni. 

Lo ammetto candidamente, non sapevo che fosse morto così nel 1933!!!! Proprio a Monza dove il figlio del suo caro amico Antonio avrebbe perso la vita giusto 20 anni dopo!!!!!

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Il 23/1/2017 at 10:08 , leopnd ha scritto:

"Gli incidenti sono dovuti tutti e tre ad eccesso di velocità" affraid
Beh, devo dire che e' una storia assurda. Tre morti in un giorno, roba da matti... E ovviamente, tutti si lavano le mani... Assurdo.

 Qui viene appoggiata la tesi dell'errore umano.

Errore dovuto a concause: l'adozione di pneumatici "slick" e la rimozione dei freni anteriori sulle vetture di Campari e Borzacchini, le mutate condizioni tra prove e gara. Vero era che Moll andò in testacoda e avvertì i commissari, che pulirono e buttarono sabbia sull'olio perso da una vettura...e proprio per questo i piloti dovevano esser consci che le condizioni in pista erano difficoltose e consigliavano di affrontare a velocità ridotta le prime tornate.

Ma i piloti corrono per mestiere, e tre morti in due diverse occasioni dimostrano che la pista quel giorno era insicura.

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  • 1 year later...
Il 23/1/2017 at 10:02 , sundance76 ha scritto:

Comprai anche questo, e nemmeno l'ho letto. Dannata mancanza di tempo...

 

A tre anni dall'acquisto, finalmente ho finito il libro di Francesco Parigi, "Campari - il fidanzato dell'Alfa Romeo".  (L'altro libro, "Campari el Negher" di Rino Rao invece non l'ho ancora aperto).

Un automobilismo diverso ma comunque intenso, meno romantico di quel che spesso erroneamente pensiamo.

Il libro di Parigi tratta tutte, ma proprio tutte, le gare del fuoriclasse italiano in circa venticinque anni di carriera. C'è anche un'ampia disamina sull'incidente mortale  di Monza '33 che coinvolse anche Borzacchini.

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Il 2/4/2019 at 15:10 , sundance76 ha scritto:

 

Un automobilismo diverso ma comunque intenso, meno romantico di quel che spesso erroneamente pensiamo.

 

L'automobilismo è sempre stato denaro e sviluppo tecnologico. E quindi concordo sul fatto che fosse meno romantico di quanto si pensi.

I guadagni dei piloti di grido sono sempre stati elevati. E quelle vetture, che oggi qualcuno potrebbe trovare "vecchie" se non "ridicole", erano invece gioielli di alta tecnologia.

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  • 4 months later...

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