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sundance76

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Contenuti inviati da sundance76

  1. Non ho seguito la questione durante l'inverno: i motori presentati oggi saranno completamente congelati fino al 2026? Oppure si potranno sviluppare?
  2. Il distacco di Sainz non mi sembra così esagerato. Sono tutti e tre molto vicini.
  3. Hamilton: "Mercedes va come Alfa Romeo". Ed è subito stagione 1936.
  4. sundance76

    Vic Elford

    E' morto il grandissimo Vic Elford, asso in pista e su strada, nelle monoposto di F1 e F2, nelle biposto Sport-Prototipo e Can-Am, nei rallyes. Un eclettico di razza. Nel 1968 nel giro di pochi mesi vinse il Rally di Montecarlo, la Targa Florio, la 24ore di Daytona e debuttò in F1 al Gran Premio di Francia arrivando subito 4°.
  5. Nel numero in edicola di Autosprint c'è un servizio di otto pagine sulla clamorosa disfatta del team Penske alla Indy 500 del 1995, conclusasi con la mancata qualificazione di entrambi i piloti, Fittipaldi e Unser jr.
  6. Queste riviste americane erano modernissime, avanti di decenni rispetto alla stampa automobilistica europea.
  7. Nel 1967 Richard Petty con la sua Plymouth vinse la bellezza di 27 corse su 49, cogliendo il secondo dei suoi sette titoli Nascar. Eccolo in gara a Riverside quell'anno.
  8. Nei giorni scorsi ho acquistato uno degli ultimi libri di Cesare De Agostini, scomparso il mese scorso. Si tratta del quarto volume dedicato dallo scrittore mantovano al suo illustre concittadino. Il volume, pubblicato nel 2017, costicchia (oltre 50 euro), ha comunque una veste grafica curata e importante, un formato molto grande, 30 x 30 x 2,5cm, e anche alcune foto del tutto inedite. Il testo è doppio: in italiano e inglese. Forse non aggiunge molto a chi è già profondo conoscitore di Nuvolari, tuttavia ho voluto acquistarlo per "completezza", ma anche come piccolo omaggio alla memoria di De Agostini. Pare che lo scrittore avesse già approntato un volume dedicato esclusivamente alle corse in motocicletta di Tazio, che sarà pubblicato in futuro. Per la cronaca, gli altri libri scritti da Cesare De Agostini a cura di Gianni Cancellieri dedicati a Tazio sono: "L'antileggenda di Nuvolari" (1972), "Tazio vivo" (1987) e "Nuvolari - la leggenda rivive" (2003).
  9. sundance76

    Rick Mears

    Incredibilmente, è impossibile trovare qualche filmato della 150 miglia di Michigan denominata "Detroit News Grand Prix" del 20 settembre 1981, ma è impossibile anche solo trovare qualche immagine di gara....
  10. sundance76

    Danny Ongais

    Fu il pilota più vittorioso e veloce della stagione Indycar '78, con 5 vittorie e 8 pole, ma incredibilmente arrivò solo 7° in classifica.
  11. Al centro, il futuro vincitore Murphy, mentre davanti a lui un'altra vettura è ai box e dietro un'altra ne sta uscendo. La sede stradale è pressoché completamente ostruita.
  12. LE MANS, GRAN PREMIO DELL’A.C. DI FRANCIA 1921 Profanato il sacro suolo I francesi la presero male: due Grand Prix di fila (1914 e 1921, se pure separati dalla Grande Guerra), due vittorie straniere. Americano, ma testimone credibile, Pete De Paolo, riding mechanic dello zio Ralph de Palma, secondo classificato sulla francese Ballot, fu l’unico a scrivere che Jimmy Murphy, vincitore americano su Duesenberg, americana, fu salutato all’arrivo da una salva di fischi e boati. Al banchetto finale di premiazione, sempre secondo De Paolo, l’atteggiamento francese fu ribadito dal brindisi non al vincitore, ma al primo classificato tra i piloti francesi, Jules Goux, terzo sulla Ballot. A quel punto, Murphy e il team principal, George Robertson, non sopportarono più quelle offese dettate da un revanscismo supponente e se ne andarono. Entrarono in un bistrot sulla strada e ordinarono un’omelette al prosciutto. Quello fu il loro pranzo della vittoria. Se gli americani trovarono da ridire sul dopo-corsa, la stampa francese dell’epoca non fu malevola e sciovinista come ci si sarebbe potuto aspettare. Anzi, preso atto, se pure con i tradizionali distinguo, della sconfitta delle Voitures Bleus, qualcuno si lanciò a ricordare le sacrosante benemerenze che gli americani si erano meritati quattro anni prima, quando vennero in Francia per combattere a fianco di inglesi e francesi e fare loro vincere la guerra contro i tedeschi. Certo, restando nello sport automobilistico, faceva male che anche quel primo Grand Prix dell’A.C. di Francia del dopoguerra, la corsa più importante dell’anno, fosse andato a uno straniero, come nel 1914 quando dominarono le Mercedes. E poi, chi erano mai questi americani, che a casa loro, Indianapolis, erano stati sonoramente battuti dalle auto francesi nel 1913, 1914, 1916, 1919. Se giornalisti e pubblico avessero saputo che le loro Peugeot del 1913 e 1914, orgoglio dell’industria francese, erano state copiate pari pari dalla Premier di Indianapolis e che anche gli altri costruttori locali le avevano prese a modello, come avrebbero mai reagito all’oltraggio di auto e piloti americani venuti a vincere a casa loro? Il detrattore più accanito della vittoria di Murphy fu un italiano, Mario Morasso, direttore di Motori Aero Cicli e Sports (Macs). Morasso, che spingeva la polemica a prescindere fino a sconfinare nella malafede e nel falso, scrisse nel suo tipico stile involuto e apocalittico: “Infatti, se è naturale che i giornali americani per l’ammirazione che hanno di sé stessi e per il loro sfrenato senso del bluff proclamino che l’industria francese, anzi quella europea, dominandola con un indiscutibile primato nel progresso tecnico, ciò non è assolutamente vero. … Per essere battuta l’industria europea avrebbe dovuto esservi al completo. Sul Circuito della Sarthe non vi era una sola tradizione vittoriosa, non un solo campione famoso, non Fiat, non Mercedes, non Peugeot, non Renault. Nessuno. Per la Francia neppure un costruttore di automobili. … Il Grand Prix spogliato di tutta la retorica, di tutta l’ampollosità e soprattutto di tutte le falsità dei relatori, si riduce all’incontro tra Duesenberg e Ballot. E il signor Ballot non è neppure un costruttore di automobili, ma soltanto di motori”. Scendendo dalle vette della polemica per tornare al commento della corsa: “Il Grand Prix è finito con una vittoria americana che ha tenuto a un filo e con una notevolissima difesa francese. Sulle prime quattro vetture arrivate, due sono americane e due francesi, e in una classifica a punti Duesenberg e Ballot sarebbero alla pari”. In realtà, come scrisse anni dopo William Court nella sua opera fondamentale “Power and Glory”: “Oltre al declino dei motori quattro cilindri e all’avvento degli otto, l’altro tema importante di quell’anno fu la crescente influenza dell’America sulle corse. La vittoria nel Grand Prix del 1921 fu un risultato per il quale gli americani avevano lavorato intensamente dai giorni di Savannah nel 1910/11 ed è a loro merito l’essere riusciti a colmare l’immenso gap con gli europei, che si era manifestato fino all’inizio all’inizio della Grande Guerra”. Gli sgarbi francesi agli americani iniziarono ben prima della corsa a Le Mans il 25 luglio. Il regolamento iniziale inviato dall’ACF prescriveva che i partecipanti sarebbero stati selezionati in base a prove dinamometriche: i motori dovevano erogare non meno di 30 cavalli a 1000 giri al minuto, e non meno di 90 cavalli a 3000 giri al minuto. Una simile regola era fatta su misura per la Ballot, che avrebbe potuto vincere anche senza schierare le proprie vetture alla partenza. Poi, l’ACF, di fronte alla mancanza di interesse dei possibili concorrenti (unica eccezione la Ballot), si rese conto dell’assurdità di quella condizione e accettò il regolamento di Indianapolis, che fu poi adottato anche in Europa: motori tre litri, peso minimo 880 kg, carrozzeria biposto. La Fiat anticipò una probabile partecipazione, che non confermò mai ufficialmente. La motivazione: scioperi in fabbrica e instabilità politico-sindacale in tutta Italia. La Sunbeam-Talbot-Darracq, inglese, annunciò la partecipazione con non meno di otto vetture, ma quando il capo-ingegnere Louis Coatalen andò in ferie, si innescò una lotta feroce fra i vari manager che rallentò la costruzione delle auto. Solo all’ultimo momento, vennero iscritte quattro vetture. “Le Talbot-Darracq, terminate all’ultimo momento in tutta fretta, hanno preso la partenza senza essere provate e senza provare il percorso. In tali condizioni hanno fatto miracoli”. Parola di Mario Morasso. Dall’altro lato dell’Atlantico, Fred e August Duesenberg pensarono di ricavare un vantaggio dalla presenza in Francia per promuovere le loro auto di serie. Mandarono un telegramma a William Bradley, uno dei più noti giornalisti americani a Parigi, ben introdotto nel mondo automobilistico francese, per iscrivere tre Duesenberg, ma non trasferirono i soldi dell’iscrizione. Bradley andò all’ACF, Place de la Concorde, Parigi, dove incontrò il presidente, cavalier René de Knyff, davanti al portone: “Ho tre ottime vetture americane per la vostra corsa. La tassa d’iscrizione non è ancora arrivata, ma sono convinto che la avrò entro pochi giorni”. Bradley sapeva di fare un grande favore a quell’uomo portandogli le vetture necessarie a disputare la corsa, che altrimenti avrebbe potuto essere annullata. Pensava che gli sarebbe stata concessa la piccola cortesia di qualche giorno di attesa per versare la tassa d’iscrizione, 15mila franchi per vettura. Si trovò di fronte a uno sprezzante rifiuto. La scadenza era vicina e Bradley telegrafò ai Duesenberg per avvisarli che c’era ancora un mese-extra per accettare le iscrizioni, ma a tassa maggiorata. Chi garantì il pagamento dell’iscrizione delle tre vetture e di una quarta di scorta fu Albert Champion, francese diventato ricco e celebre in Usa fabbricando le candele con il suo nome. Bradley, che aveva il gusto teatrale di mettere a disagio gli interlocutori, attese l’ultimo giorno utile per portare i soldi dell’iscrizione delle quattro Duesenberg all’ACF, che si stava rassegnando a cancellare la corsa. Quanto raccontato da Griffith Borgeson sa di leggenda, ma appare credibile, visti i precedenti. Bradley attese che gli orologi dei campanili iniziassero a battere le sei, ora di chiusura degli uffici dell’ACF. I campanili di Parigi non erano, ovviamente, sincronizzati e Bradley, mentre risuonava l’ultimo tocco dell’ultimo campanile, entrò nell’ufficio all’ultimo piano della sede dell’ACF, gettò i soldi sulla scrivania di de Knyff e disse: “Questo è per quattro Duesenberg. E adesso, forse, riuscirete a organizzare la corsa”. E fu così che il primo Grand Prix dell’ACF del dopoguerra andò in scena a Le Mans il 26 luglio su un circuito di 17.520 m da percorrere 30 volte per un totale di 517,860 km. Gli americani arrivarono in Francia a metà giugno: team principal George Robertson (che da pilota aveva vinto la Coppa Vanderbilt 1908), ingegnere capo August “Augie” Duesenberg. Stabilirono la loro sede a Ecommoy, a pochi km da Le Mans, in una vecchia fattoria. Il granaio diventò l’officina in cui preparare le auto, quattro per la corsa più una per gli allenamenti, chiamata “The Mule” dai piloti americani. Prove e allenamenti erano in programma ogni giorno dalle 5 alle 6, quando le strade venivano chiuse al traffico. Traffico che, secondo Pete De Paolo, era costituito da: “Greggi di pecore, oche ballonzolanti, carretti carichi di fieno, carri pieni di frutta e ortaggi”. Nelle prove apparve subito chiara la maggiore velocità delle Duesenberg. Si disse che il loro vantaggio competitivo fosse nei freni sulle quattro ruote. Non è vero: tutti avevano la frenatura sulle quattro ruote, ma le Duesenberg usavano un sistema idraulico americano Wagner-Lockheed mentre gli altri montavano il tradizionale sistema meccanico con cavi e giunti sferici. Il sistema idraulico consentiva alle Duesenberg di equilibrare meglio la frenatura e impostare traiettorie più strette in curva. Ma i piloti non erano soddisfatti, anche perché la frenatura anteriore non era ancora stata assimilata nella tecnica della guida veloce. Il problema venne risolto da Ernie Olson, riding mechanic di Jimmy Murphy: “All’inizio delle prove, avevamo una frenatura anteriore eccessiva: ogni volta in cui Jimmy schiacciava il pedale, la vettura iniziava a sbandare attraverso tutta la carreggiata. Infine, Jimmy finì in un fosso e fu severamente ferito. Eravamo molto preoccupati. Avevamo tamburi da 14 pollici sia anteriori sia posteriori. Notai che le Ballot, che andavano molto bene in frenata, montavano anteriormente tamburi più piccoli. Andai da Augie e gli dissi che avremmo potuto ottenere lo stesso risultato togliendo un po’ del materiale di attrito nei freni anteriori. Mi disse di provare. Presi un seghetto e tagliai due pollici di strisciante da ciascun freno anteriore”. Il problema era davvero serio: in una delle prove, come ricordato da Olson, i freni di Murphy si bloccarono all’entrata di una curva. L’auto sbandò e finì rovesciata in un fosso. Murphy dovette essere ricoverato in ospedale con due costole rotte e dolori dappertutto: la sua presenza al Grand Prix sembrava compromessa. Il pilota ufficiale Louis Inghilbert, che era sull’auto con Murphy, ne uscì ferito così severamente da perdere ogni speranza di partecipare alla corsa. La sua auto venne affidata a André Dubonnet, un magnate dell’industria vinicola, poi costruttore del sistema di sospensioni indipendenti che portano il suo nome. Jimmy era ancora in ospedale e fu Joe Boyer, l’altro pilota americano del team, a provare la vettura. Andò in pieno lungo il rettilineo, poi schiacciò il pedale del freno e l’auto rallentò senza nessuna sbandata. Il vantaggio sui francesi era ulteriormente aumentato. Le prove insegnarono alla Duesenberg che era inutile portare a bordo la ruota di scorta. Si perdeva meno tempo ad arrivare ai box sul cerchione piuttosto che cambiare la ruota sul circuito e poi rientrare al box per caricarne un’altra. E si risparmiava sul peso totale: 910-926 kg per le Duesenberg in confronto a 932-933 kg per le Ballot e oltre 1000 kg per le Sunbeam. Correre senza ruote di scorta era qualcosa che non si era mai fatto in Europa. Anche per questa novità, quel Gran Premio segnò un punto di svolta nel progresso delle corse. Durante le prove, il produttore francese di carburatori Henry Claudel fece offerte finanziarie interessanti per quelle auto che avessero montato i suoi carburatori. Unico tra i piloti Duesenberg, Murphy preferì mantenere i suoi carburatori Miller. Fu una decisione felice perché in corsa sia le Duesenberg sia le Ballot ebbero problemi con lo sporco che andò a intasare le valvole a farfalla dei loro Claudel: tutti, escluso Murphy, dovettero perdere tempo ai box per sostituire le molle di richiamo delle valvole a farfalla. Ci furono progressi importanti nella tecnologia degli pneumatici. Erano disponibili gli pneumatici Pirelli a fianchi diritti, in esclusiva per la Ballot. De Palma e Goux fecero tutta la corsa senza cambi di pneumatici. Il Team Duesenberg si affidò ai vecchi e collaudati Oldfield (poi noti quali Firestone), che si comportarono normalmente con un solo cambio durante la corsa. Il disastro fu con i Dunlop montati sulle Sunbeam: Segrave cambiò 14 gomme, Boillot sette e Guinness nove. Al box inglese finirono le scorte e si misero a battere il parcheggio per acquistare pneumatici con le misure giuste presi dalle auto da turismo. Prima della gara ci fu lo scontro verbale tra Ernest Ballot e Ralph de Palma, ingaggiato dal costruttore francese, sebbene fosse straniero, per la sua nota capacità, precisione, sensibilità di guida. Aveva già guidato la Ballot a Indianapolis nel 1920 e 1921 (centrando entrambe le volte la pole position). In nome dell’abitudine americana, aveva convinto Ballot a montare la leva del cambio al centro dell’abitacolo, non all’esterno, come era consuetudine francese. Ballot gli aveva dato la vettura con il motore meno potente, ma de Palma girava regolarmente più veloce dei suoi compagni di squadra francesi Goux e Chassagne. Oltre alla miglior capacità di guida, il segreto di de Palma stava nella scelta di far manovrare la leva del cambio a De Paolo, suo riding mechanic. Aveva calcolato che poteva guadagnare almeno un decimo di secondo a ogni cambiata se lui avesse tenuto le mani sul volante e il meccanico avesse manovrato la leva del cambio. Quei decimi si sarebbero sommati e avrebbero potuto fargli vincere la corsa. Ralph conosceva l’impetuoso Ballot abbastanza bene da sapere che non avrebbe mai accettato un simile comportamento fuori dalla normalità consolidata e da lui approvata, ma non si tradì. Un giorno, in prova, alla curva di Mulsanne, che richiedeva il passaggio alla seconda, Pete mancò la cambiata. Il cambio grattò e il motore urlò in un colossale fuorigiri. Ernest Ballot era proprio lì e capì tutto. Reagì con autentica furia e fece rimettere la leva nella posizione originale. Fu la fine dei buoni rapporti tra de Palma e Ballot. Ralph disputò la corsa, ma senza metterci il cuore. Perché mai avrebbe dovuto dare l’anima per puntare a una vittoria che il patron Ballot pretendeva solo in nome della sua supponenza di ingegnere onnisciente? Dopo la corsa, Ralph disse agli amici: “Bene, mi è costata un po’ di gloria, ma perlomeno ho imparato tutto su Ballot e le sue auto”. Dopo il preambolo di tre gare motociclistiche il lunedì, arrivò il giorno della gara, martedì 26 luglio. Murphy restò in ospedale fino a due ore prima del via e, nonostante non fosse certo nelle condizioni ottimali per guidare in una corsa così impegnativa, si alzò dal letto, bendato dalla vita alle spalle. Dovette essere aiutato a sedersi al posto di guida. Nessuno pensava che sarebbe stato capace di resistere per tutta la gara. Le partenze vennero date a coppie, distanziate di 30”. Murphy partì nella quarta coppia, insieme a Guinness su Sunbeam, e passò al comando già al primo giro, davanti alla Ballot di Chassagne. Quando Murphy si fermò al giro 12 per rifornimento e cambio pneumatici posteriori perse il vantaggio di quasi due minuti su Chassagne, che si trovò primo con 27” di margine di Boyer e 1’10” su Murphy. Le Duesenberg si confermarono più veloci delle Ballot e in tre giri recuperano 4” Buyer e 17” Murphy. Il giro 17 fu fatale per Chassagne: il serbatoio della sua Ballot si staccò, scese contro l’albero di trasmissione e si aprì. Corsa finita. Boyer dovette fermarsi al giro successivo con una biella rotta. Murphy riprese il comando davanti a Guyot (Duesenberg), che gli copriva le spalle da de Palma, che proseguiva perdendo quasi un minuto al giro. Dramma al box americano quando, al giro 28, Guyot perse tempo a riavviare il motore. Il meccanico scaricò tutta l’energia che aveva in corpo affannandosi sulla manovella e venne sostituito da Arthur Duray, pilota belga, saltato nel box in giacca scura e camicia con gemelli: era lì da spettatore. Ripartì al fianco di Guyot, per rispettare il regolamento che permetteva il cambio di meccanico. De Palma ritrovò il ritmo e nella fase finale della corsa fu il più veloce, ma non riuscì mai a scendere sotto gli 8’ sul giro. Il giro più veloce restò a Murphy in 7’43”, media 134,218 km/h. Murphy vinse in 4.07’11”4, media 125,709 km/h con un vantaggio di 15 minuti su de Palma, 4.22’10”6. Il finale di Murphy fu drammatico: foratura a metà del giro 29 e danno al radiatore provocato da un sasso al giro 28, che innescò una lenta perdita dell’acqua di raffreddamento. Murphy riuscì comunque a concludere anche il giro dopo l’arrivo, fermandosi senza una goccia d’acqua. Il problema più grave per tutti fu lo stato del fondo stradale. Le strade, mai curate dopo la Grande Guerra, si disintegrarono rapidamente sotto il carico generato dalle auto in corsa. La superficie era disseminata di pietre grandi come palle da tennis, che colpirono piloti e auto. Due meccanici vennero colpiti e svennero durante la corsa. Murphy stesso venne più volte colpito di striscio al viso. Guardando le foto ci si domanda come facessero a sopravvivere ai sorpassi e ad andare così veloci: in certi punti superavano i 160 km/h. A corsa finita, Ernest Ballot radunò un po’ di gente in una piazza di Le Mans e tenne una concione proclamando di essere il vincitore morale perché le sue auto, dopo l’arrivo, erano pronte a ripetere la corsa mentre le Duesenberg: “erano ridotte a pezzi, incapaci di percorrere un solo km in più”. Albert Guyot, suo conterraneo, lo zittì proclamando: “C’è uno solo che vince una corsa: chi arriva primo al traguardo”. Ma questo finale ce l’hanno raccontato solo gli americani. (Aldo Zana, “Monzanapolis, le 500 Miglia di Monza – L’eterna sfida Europa-America”, Editore Il Cammello, 2017)
  13. Qualcuno riesce a trovare la registrazione della Michigan 150 del 1981? La titolazione era "Detroit News Grand Prix" Era una gara diversa dalla Michigan 500, pur se la pista è la stessa.
  14. Un'inserzione dal carattere quasi moderno. Si tratta della pubblicità sul quotidiano "Il Littoriale" (futuro "Corriere dello Sport-Stadio") della Lotteria di Tripoli 1934 abbinata al prestigioso Gran Premio che andava in scena nella capitale libica, sul grandioso e avveniristico circuito della Mellaha (che poi divenne una base militare americana e infine l'attuale aeroporto internazionale Mitiga). Come si legge, oltre ai premi milionari per i fortunati possessori dei biglietti abbinati ai piloti, c'erano in palio anche 30 viaggi Roma-Tripoli e ritorno in aereo, come premi di "consolazione". In quel 1934 la vittoria di Varzi, il secondo posto di Moll e il terzo di Chiron (tutti su Alfa della Scuderia Ferrari) resero milionari tre cittadini: al signor Ricci di Padova andarono ben 6 milioni e 756mila lire, al signor Introini di Novara 3 milioni, e al signor Fumagalli, sempre di Novara, 1 milione e mezzo. Anche ai tre piloti non andò male, visto che Varzi si aggiudicò 265mila lire, Moll 180mila, e Chiron 95mila: cifre enormi, per una sola gara. Teniamo presente, ad esempio, che l'ingaggio-base dello stesso Varzi assicuratogli dalla Scuderia Ferrari per la stagione '34 ammontava a 100mila lire, più il 50% dei premi di partenza, d'arrivo e degli sponsor tecnici.
  15. Nel Mondiale Rally solo due gare sono finite con i primi due concorrenti in parità assoluta. Per assegnare la vittoria si fece riferimento a chi si era meglio piazzato al primo controllo orario. Nell’East African Safari Rally del 1973, così, vinse l’equipaggio Mehta-Drews su Datsun 240Z, precedendo Kallstrom-Billstam su Datsun 1800. Nel 1985 successe ancora: al Rally di Costa d’Avorio Kankkunen-Gallagher precedettero Waldegard-Thorszelius, tutti su Toyota Celica. In entrambi i casi, si trattava di gare che superavano i 5mila km cronometrati (oggi arrivano a stento a 290...).
  16. CON DE AGOSTINI SE N'È ANDATO IL MIGLIORE di Mario Donnini Cesare De Agostini se n’è andato. Evento inatteso e triste quanto terribilmente impoverente, per noi tutti. Alfa e Omega, 4 agosto 1941-20 gennaio 2022. Lui, che con una punta di civetteria nell’ambito di Autosprint amava essere ricordato come il collaboratore di più antica militanza, misconosceva il vero punto della questione, cioè questo: era, è e sarà per sempre il più bravo. A prescindere. Di più. Cesare De Agostini è uno dei più valenti scrittori della letteratura italiana contemporanea e - sia chiaro -, non solo di Motorsport. Una quarantina di libri all’attivo, preferibilmente biografici, a valorizzare miti quali Nuvolari, Villeneuve, Regazzoni, la Cisitalia, l’Auto Union e Ferrari il Sceriffo, fino ad arrivare a Maria Teresa de Filippis e Don Ruspa -, perché invecchiando sapeva sempre più innamorarsi anche di piccole-grandi storie -, più quasi altrettanti anni di servizio come giornalista della Gazzetta di Mantova. Quindi la verve e la preparazione del vaticanista che raccontava fede, santi e conclavi in articoli e libri rendendoli emozionanti come Mille Miglia. E nel frattempo, appunto, sei decadi di collaborazione con noi. Un oceano d’inchiostro, di storie, di rapporti, d’emozioni e di carta a contenere ogni possibile bersaglio della sua passione, del suo spirito d’osservazione che sapeva essere tela, pennello, colori, ma anche scala valoriale, promessa di gioia per il lettore e anche impegno forte e rigoroso di scrupolo cronachistico e blindata onestà fatta inchiostro. Poi però c’era e sempre ci sarà la forma. Il suo Stile. Di vita e linguaggio. Quel saper mettere il discorso su piste carezzevoli e strane, che mentre leggi ti fanno ringraziare il dio della scrittura, anche perché Cesare, il Cesare Augusto dei Raccontacampioni, sapeva essere suo profeta, in ogni riga. IL METODO DE AGOSTINI Affondare nella sua prosa è come mettere i piedi su una neve che scricchiolando ha il suono del cristallo in briciole preziose, mentre l’aria d’una soleggiata giornata sottozero ti riempe i polmoni e gli occhi godono d’un cielo cobalto. L’uso delle interpunzioni come schegge balenanti, brandendo, lieve, metafore e metonimie, il periodare sapiente e calmo tenendo a bada il talento che non ha bisogno di lanci lunghi ma si basta di gioco corto e carezzevole, come il Brasile di Pelé, Didì e Vavà. A preparare il gol bailado. Il suo. L’arrivare semiologicamente a segno esprimendo un concetto e finendo di raccontare una storia, mentre tu lo leggi e ti stai divertendo. Come quando baci una di cui sei perdutamente innamorato e questa, a prescindere, bacia talmente bene di suo che ti farebbe stare da re anche se di lei non te ne fregasse niente. Ecco, questo è il che di seduttivo che mantengono le righe di Cesare e, pro quota, ciascun libro, ogni articolo e perfino tutte le frasi che ha detto. Già. Ad alcuni per fare un complimento a volte si dice che scrivono con la naturalezza con cui parlano: be’, lui no, tutto il contrario. Cesare aveva una prosa sciolta nella metrica ma con la stessa suggestione della poesia e s’esprimeva a parole misurate, scolpite, drammaticamente meditate e prescelte tra le milionate di termini in tasca, perché niente nella sua vita è stato casuale, purchessia, spesso o buttato là. La forma era una cosa seria, terribilmente seria, per lui. E doveva andare d’accordo con la sostanza. Poi l’essudato finale doveva dire, raccontare sincero, svelare e svelarsi, mettendo a nudo narrato ma anche narratore e allo stesso tempo piacere al lettore senza compiacerlo. Farlo riflettere evitando di sfibrarlo, annoiarlo o indignarlo. Stimolandolo a pensare e basta, però con in bocca cioccolata&menta. UOMO BELLO QUANTO SCRITTORE BRAVO Proprio non so se Cesare De Agostini sia mai stato un bell’uomo, ma di certo sempre lo terrò in me come un Uomo Bello assai. Ricco di sentimenti, sotto il pelo dell’acqua tempestosamente passionale, capace di amicizie che godeva e pativa quasi fossero amori, trasformandole alla bisogna e a tratti in ire forti, ovvero incline a coltivate affinità e parallelamente a incompatibilità dichiarate e non mutuabili. Di Cuore e di Carattere. Ma di fondo un meraviglioso Galantuomo. Persona ricca di principi, imbevuti d’etica. Sapeva stare sul palcoscenico alla grande, oratore insigne, colto e aulico ma anche, paradossalmente, schivo, pudìco, dotato del senso della misura e dell’umiltà rara dei geni che se ne stanno buoni perché serenamente consapevoli d’avere tanto da dire e dare, ma proprio nulla da dimostrare. Non era uno facile, ma dava umanamente assuefazione, tanto che, una volta che t’aveva aperto il cuore, diventava impossibile farne a meno. Volete la verità? Nel giro di chi scrive libri, mai chiedere a un autore il contatto del suo editore. Di regola è geloso, punto; ecco, magari gli sa meglio se trascorri un weekend con la moglie - dello scrittore, non dell’editore, eh - perché spesso ha paura che gli rubi uno spazio, un libro da fare o chissaché. Cesare no. Cesare, pensate, era il contrario algebrico. Era capace di chiamare e dire: "Ehi, mi ha cercato un editore per scrivere un libro, ma non ho tempo: ti va di farlo? Dai". E questo è successo minimo tre volte, a me, ma l’avrà fatto mille con altri, perché era così. Non ha mai chiesto niente a nessuno, aiutando tanti. E allora GRAZIE, per tutto. E SI SVEGLINO, I DORMIENTI Parlare di Cesare è anche fare a pugni con un’ingiustizia di fondo. Perché resta scrittore quasi sconosciuto alla critica togata e ufficiale, ai salotti e salottini che ha sempre rifuggito e alle aree politiche che ha puntualmente schivato. Certe volte in Tv, anche nei cosiddetti programmi colti, odo lodi a mezze figure dotate di talentini e talentucci che a Cesare non avrebbero potuto neanche lavare la biancheria, ma il mondo va così. Eppoi ci sta anche che se uno scrive e piazza gran belle storie di calcio, o che so, d’atletica, di boxe, di rugby o di ciclismo, è percepito - anche giustamente - come artista rivelato, ma se uno fa lo stesso affondando le mani nel Motorsport viene considerato alla stregua di un autoriparatore che firma una bolla di consegna. E questo, sia chiaro, non è un problema di Cesare, ma di chi Cesare e il Motorsport non li ha mai capiti, assaporati e valutati, facendo danno solo a se stesso e a chi doveva esserne informato. IL SUO LIBRO PIÙ BELLO? Boh, secondo me non esiste un suo miglior libro, perché son tutti belli. Comunque il mio preferito resta “È questione di cuore” - Bancarella Sport 1983 -, scritto da lui facendo aprire Clay Regazzoni, perché riesce a parlare del dramma della paraplegia dopo il crash di Long Beach, con dolcezza e poesia irripetibili. E, anche per Autosprint, “Tazio Vivo”, “Gilles Vivo” e “Ferrari, il Sceriffo” piuttosto che “La Ferrari in tuta”, con Giulio Borsari, oltre a “La coda del Drago”, su e con Sandro Munari, restano pietre miliari, con lui impressionista puro che con tre pennellate ti regala una poesia, un poema e una civiltà, a tratti restituendo una tragedia di cronaca trasformandola in letteratura epica. GLI AMICI, QUELLI VERI Cesare, dicevo, ha coltivato e tesaurizzato l’Amicizia come il suo più bel giardino. Gianni Cancellieri, co-autore di mille libri fatti insieme e anche il primo a incaricarlo di scrivere un pezzo su As, nel lontano 1963, resta tra i suoi interfaccia più cari, così come il compianto editore Giorgio Nada e Stefano Chiminelli, che presto darà alle stampe l’opera postuma “Nuvolari in sella”, sulla storia di Tazio centauro. Proprio Stefano ama dire: "Se volete conoscere l’anima di Cesare, potete farlo anche ora: basta aprire un suo libro". Per questo le figlie Elly, Inge e Lara, che abbracciamo idealmente, piangendolo possono comunque trovare un raggio di luce e conforto. I BEI COCCI DI UNA CARRIERA IMMAGINARIA Allora, tutti insieme: il più bravo di tutti? Cesare De Agostini. E un po’ mi dispiace per gli altri. Uno che per più di mezzo secolo, con la scusa di scrivere di corse, ha fatto letteratura alta. E pure a turno, bionda e mora ma sempre formosa il giusto. E, oh, yes, di gran classe. Mbe’, già che c’era, finalmente, verso la fine della pista, il Più Grande ha perfino raccontato la sua carriera mancata di potenziale asso del volante con un incredibile libro su se stesso pilota mai nato, by Giorgio Nada Editore. Sì, mi sono letto pure il suo automobilistico, autoironico, autobiografico e autosfottente “Se questo è correre” in una notte e l’ho trovato delizioso, mentre pagina dopo pagina raccoglie i cocci di una vita immaginaria - per dirla alla Massimo Ranieri -. In un abitacolo quasi solo agognato, ma con lo stile sognante di sempre. Un consiglio? Per una volta sottraete qualche ora a internet e leggetelo, dicendogli arrivederci. Perché in pratica lui lì ci dice ciao raccontando il pilota che non è mai stato così come adesso ci sta salutando all’interno di una scomparsa che, vedrete, non sarà per niente tale. Semplicemente perché tutto ciò per cui e di cui Cesare De Agostini ha scritto e vissuto, non è per niente adatto a morire.
  17. Non è mia, Leo, ma di Mario Donnini
  18. A quasi 48 anni (penso sia il nuovo record) Loeb vince la prima gara 2022 del WTRCM (Mondiale Turismo su Strada in Microtappe).
  19. Scritto da uno dei migliori piloti dell'epoca, ecco un ottimo libro per chi è interessato al decennio 1896-1906.
  20. Il sito dove sono elencati quasi tutti i suoi libri: http://cesaredeago.altervista.org/
  21. Sono profondamente addolorato, è scomparso il grande Cesare De Agostini. I suoi libri mi hanno insegnato ad amare il lato umano dell'automobilismo. https://gazzettadimantova.gelocal.it/mantova/cronaca/2022/01/21/news/mantova-il-giornalismo-e-in-lutto-addio-a-de-agostini-1.41151754 Nel 2002 (già vent'anni, ma non ci credo), mi inviò una e-mail con cui iniziò una bella corrispondenza. Poi lo conobbi di persona il 28 maggio 2005 alla conferenza AISA su Ascari. Non lo vidi più di persona, anche se talvolta ci scrivevamo. Due anni fa provai a telefonargli più volte, ma c'erano sempre problemi di linea. E ora mi resta il rimpianto, insieme alla bellezza dei suoi libri.
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