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LA QUADRATURA... DEI "CERCHI"
 
"Furbizie" contro "furbate": i racconti di Sergio Barbasio, "The Fox", la Volpe dei rallyes.
 
"Prova di Campionato Europeo in Spagna.
Ancora una volta mi trovavo al termine di una corsa in testa alla classifica con un margine di pochi secondi sugli immediati inseguitori. E ancora una volta l'ultima prova era sfavorevole al mio mezzo meccanico.
La mia vettura infatti, montava rapporti molto corti che consentivano una velocità di punta, a 7200 giri al minuto, di circa 170 km/h, mentre l'ultima prova speciale si svolgeva su una strada assolutamente piatta e veloce, con appena il venti per cento di curve, contro l'ottanta per cento di diritto.
Sapevo che le vetture dei miei diretti avversari erano più veloci sui tratti rettilinei di almeno 10 kmh rispetto alla mia.
Sapevo inoltre che se avessi tirato il motore 500 giri in più per oltre 15 chilometri (tanti erano quelli dei rettilinei della speciale), avrei quasi certamente rotto il propulsore.
E mentre all'assistenza mi scervellavo sul da farsi lo sguardo si posò su un mezzo dei meccanici: una vettura di serie dello stesso modello da cui derivava la mia da corsa. Montava cerchi da 15 pollici mentre la mia aveva quelli da 13.
Era evidente che, nascendo con i cerchi più grandi, la prima omologazione della vettura doveva essere stata fatta proprio con quei cerchi e che quindi, utilizzandoli sarei stato perfettamente in regola.
Feci un rapido calcolo e mi resi conto che avrei guadagnato quasi 20 kmh in velocità di punta: un grande vantaggio anche se ovviamente avrei perso qualcosa in accelerazione.
Esaminai i pneumatici e, con enorme soddisfazione, notai che, pur trattandosi di gomme assolutamente stradali, erano praticamente nuovi.
Decisi quindi di montarne due sulle ruote motrici. Il risultato estetico non era certo dei migliori, poiché la macchina sembrava essere sempre in salita, ma il risultato pratico fu meraviglioso: mi permise di vincere prova e gara.
Naturalmente mi sono immediatamente dimenticato di quale incubo siano stati quei quindici chilometri di rettilinei percorsi a quasi 200 kmh, con due pneumatici usati che potevano saltare da un momento all'altro!"
 
("Come guidare nei rally", di Sergio Barbasio, Campione d'Italia 1971 e 1972)

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LA "QUASI" MACCHIA NERA

"Ebbene sì. Anch'io. Lo sportivo integerrimo. Ci sono cascato anch'io. Una macchia nera. O meglio, una "quasi" macchia nera.

Si correva il rally di Sardegna 1966. Estemporaneamente, tornavo al volante della Giulia Quadrifoglio. Più adatta. Su quelle stradine sassose la Gta non avrebbe retto. Io e Dante Salvay eravamo in lotta per l'assoluto contro la Fulvia HF di Cella. Prima di arrivare a Nuoro, affrontammo una prova in salita. E lì, improvvisamente, senza preavviso, il motore cedette, fuso. Riuscii a portare la Giulia fuori della prova speciale. Subito dietro arrivò un'altra Giulia del Jolly Club. Noi col numero 64, loro con il 66.

- Invertiamo i numeri di gara - propose Salvay - mettiamo il 66 sulla vettura 64. Noi continuiamo, perché possiamo vincere, gli altri si ritirano...

Voleva dire sostituzione di auto. Voleva dire "barare". Nella demenziale concitazione, tutti dissero di sì. Io compreso. I numeri cambiarono di portiera. Con la Giulia sana andai a fare la prova successiva, la salita Nuoro-Monte Ortobene. Finì la prima tappa. Eravamo primi.

Notte. Insonnia, il rimorso. La coscienza si ribellava. E mi faceva star male.

Dal cervello allo stomaco, era tutto sottosopra.

"No Arnaldo - mi ripetevo -, queste cose no".

Ero caduto nella frode, ma potevo ancora vanificarla.

Il mattino dopo comunicai a Salvay che non si ripartiva. Tutti a casa. Non me la sentivo di continuare.

Non era ancora giunto il momento di vendere l'anima al diavolo".

(Arnaldo Cavallari, campione italiano rally 1962-1963-1964-1968)

foto di repertorio della stagione precedente.

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TRAGEDIA GRECA
 
Appena il portellone dell’aereo venne aperto entrò uno schiaffo di calore impressionante, le case che avevamo sfiorato atterrando dormivano nella calura d’inizio estate, tutte bianche con il tetto rosso stagliavano contro lo sfondo giallo dell’erba bruciata dal sole, poi via via che ci avvicinavamo alla meta queste si alzavano fino a dare l’impressione che il gigantesco aereo andasse a tuffarsi nel centro della città millenaria.
L’Acropoli ci guardava dall’alto di una collinetta, con la stessa sufficienza con cui un vecchio re guarda degli intrusi fracassoni che disturbano il suo maestoso ed eterno sonno.
 
La gara a quei tempi - nel 1987 - era forse una delle più belle e dure del mondo, un rally con ritmi pesantissimi dove anche i tratti di trasferimento facevano classifica e dove i settori a “zero” facevano compiere imprese leggendarie a tutti i partecipanti solo nell’intento di non pagare penalità, una vera Mille Miglia su terra.
 
I minuti di penalità a quei tempi contavano 60 secondi e i km. di prova speciale erano circa ottocento tra strade impossibili, sentieri stupendi, dirupi da brivido e tratti bellissimi che ancora oggi ricordo con velata nostalgia.
Gia’ durante le ricognizioni la vita si presentava dura, il furgone non riusciva a seguirci per tutto il tragitto e percorrevamo tratti scoperti molto lunghi, la benzina era il problema più grosso e le rotture meccaniche erano l’incubo ricorrente, non esistevano comunicazioni e le radio coprivano quello che potevano, se la vettura si rompeva seriamente erano problemi seri anche andando via in coppia come facevamo sempre.
 
Ci trovavamo in mezzo ad un posto sperduto quando sulla vettura del mio compagno di squadra si ruppe un braccio posteriore della sospensione, una pietra lo spezzò come fosse un biscottino. Nella Delta erano in lamiera stampata, fragilissimi, bastava una pietra e zac la ruota si apriva e restavi lì.
Il sole stava per sparire dietro a due enormi montagne e non restavano molte soluzioni se non tentare una riparazione di emergenza.
 
Un paletto di legno, un po’ di filo di ferro e decine di giri di nastro da imballaggio, fu la ricetta che ci permise di ritornare in albergo e non risultare dispersi.
 
Il giorno dopo ci trovammo a corto di benzina in un posto altrettanto sperduto, ci fermammo in mezzo ad alcune case che escluso il rally dell’Acropoli e forse la seconda guerra mondiale non avevano mai visto altra gente che lo sparuto gruppo di pastori che vi dimorava.
 
Loris e Gigi Pirollo contattarono senza sapere una parola di nessuna lingua, un tipo che stava fuori da una casa, si parlavano come Tarzan, Cita e uomo bianco e ovviamente la faccenda non sembrava produrre alcun esito, anche perché era veramente un posto perso nelle montagne.
 
“Se non troviamo benzina ci tocca dormire qui e farci prestare un gregge da pascolare finché qualcuno non ci trova”
 
Loris parlava in veneto al tipo e Gigi sembrava un sordomuto che agitava le mani, mescolava parole in ogni lingua.
Ad un certo momento il tipo si infila due dita in bocca e fa due fischi fortissimi. Da una baracca che ottimisticamente possiamo chiamare casa uscì una signora, alta forse un metro e cinquanta e del peso di qualche tonnellata, barcollando costei si avvicinava a noi con un bidone verde che faticava a trasportare.
Lo consegnò a quello che penso fosse suo marito, il fischiatore insomma, il quale non si era ancora mosso dalla posizione rilassata che aveva al nostro arrivo, all’ombra di un albero con alcuni amici a bere qualche schifezza locale.
 
Il bidone fu issato col nostro aiuto sul tetto della Delta e la signora mi passò un tubo, facendomi segno di infilarlo dentro il fusto. Una volta entrato la signora afferrò il tubo e tirò forte con la bocca aspirando la benzina e quando questa uscì fu infilata immediatamente nel vorace serbatoio ormai arso come un campo in estate. Mentre stavano riempiendo la mia macchina, la signora ricomparve con un altro bidone che mettemmo sopra la Delta di Alex.
Quando la signora mi diede il tubo, lo infilai tutto nel bidone riempiendolo di benzina e poi tappandolo con il dito estrassi la benzina senza aver bisogno succhiare e di berne inevitabilmente un poca come spesso succede.
La signora ed il marito restarono stupefatti, per anni avevano bevuto benzina senza sapere che esisteva un modo così semplice per non farlo.
 
Il giorno dopo quando ripassammo di là ci fermarono, la signora ci aveva preparato una torta come ringraziamento. La mangiammo seduti sugli scalini della casa parlando sempre come Tarzan, Cita e uomo bianco…
Le mura dell’Acropoli erano ancora lì quando partimmo per la gara, l’alba gialla e intorpidita salutava lo scendere dalla pedana delle prime vetture.
 
Ognuno di noi aveva un poliziotto che a tutta velocità e con le sirene spiegate ti accompagnava fuori dal caotico centro della città greca. Era quasi difficile stargli dietro da tanto andava forte e una volta giunti in un punto stabilito costui ti salutava con un’impennata, si rigirava e tornava a prendere un altro equipaggio.
 
La prima prova speciale, disputata il giorno prima nell’arena di Lagonissi l’avevamo vinta di poco.
Alla vista del cartello giallo di preavviso fine prova avevo mollato come un tonto, pensando che finisse lì, “Vai, Vai, Vai” la voce agitata di Loris mi fece rinvenire accorgendomi dell’errore, scalai una marcia e finii la prova.
 
Ripensavo a questo mentre entravamo nella prima speciale vera del rally, una pietraia mai vista nella quale l’anno prima diverse vetture erano rimaste irrimediabilmente danneggiate.
 
Avevamo preso la gara con il passo giusto per terminarla e dopo alcune prove avevamo davanti a noi solamente un greco con una Delta, dietro Alex Fiorio, poi altri equipaggi non molto importanti, la selezione si era fatta subito, il greco sapevamo che sarebbe durato poco, la Lancia aveva quaranta tra furgoni e mezzi veloci dislocati in ogni inizio e fine prova, uno spiegamento imponente che nessuno poteva nemmeno avvicinare.
 
“Dovete stare molto attenti perché abbiamo i braccetti anteriori di serie, si piegano e si rompono facilmente”, ci disse sinistramente Bortoletto prima di partire.
Pensavo che la scelta fosse dettata da una precauzione regolamentare per la prima parte di gara e che poi ci avessero messo qualcosa di più robusto, vista l’assoluta impossibilità per quel tipo di braccio di affrontare la gara greca. Anche nel rally più stupido si sapeva che le Delta avevano dei bracci rinforzati, si piegavano perfino sull’asfalto, il regolamento di allora ovviamente non li prevedeva ma li avevano tutti, anche perché erano talmente ben fatti che era impossibile vederli senza avere il pezzo in mano.
Non mi curai molto del problema affrontando con la massima precauzione ogni buco che nella stesura delle note avevamo curato più della difficoltà delle curve.
 
“La macchina non sta più in strada, va dappertutto”: la voce di Alex irruppe nelle cuffie appena dopo l’ultima prova della prima tappa.
 
"Vieni giù all’emergenza siamo appena sotto” Rispose immediatamente il furgone.La mia macchina non aveva problemi sembrava appena scesa dalla bisarca per cui mi spostai al servizio successivo per lasciare loro lo spazio per lavorare.
 
Quando lui arrivò chiesi a Gigi che cosa avessero rotto e che questo fosse cambiato anche nella mia macchina per precauzione.
 
“No non era niente, solo la scatola guida allentata”
“Un tirante dello sterzo lasco” disse qualcun altro.
Poi dopo alcuni minuti saltò fuori invece che vennero cambiati i due bracci anteriori.
 
La seconda tappa partiva presto al mattino, ci si spostava verso il nord per finire a Kamena Vourla a circa duecento km da Atene.
 
Il greco che ci era davanti come previsto si fermò, ruppe il solito raccordo della pompa di benzina, guasto obbligatorio per chi usava il serbatoio di serie, invano venne ad implorare ai furgoni un aiuto, lo guardavano tutti come fosse un lebbroso.
 
“Ma è sempre una Lancia” Gridava invano a tutti quelli che gli capitavano a tiro.
Mi fece una pena tremenda ma dopo tutto il suo ritiro mi consegnava la testa della classifica senza nemmeno fare fatica, lo avevamo previsto era solo durato qualche prova di più del pronostico.
 
Alex aveva rotto il cambio nella prima prova della seconda tappa, era rimasto in terza o quarta ma continuava con mille difficoltà e a velocità molto ridotta, dietro a noi praticamente più nessuno, avevamo vinto già da metà gara, la macchina era perfetta.
 
Al riordino di Itea sotto una calura tremenda Loris dal tavolino dei cronometristi mi fece segno con le mani che avevamo una ruota chiusa.
 
“Un braccetto che si è piegato” diceva mentre si allacciava le cinture, “Lo facciamo cambiare subito” prese in mano la radio e chiamò l’assistenza.
 
Iniziavamo poco dopo un tratto di circa ottanta km praticamente senza assistenza e con tre settori a zero.
 
“Secondo me anche se è piegato un po’ non si rompe, lasciamo stare, facciamolo stasera quando abbiamo un ora, tanto andiamo piano”
 
Litigammo e come sempre aveva ragione lui, però non so perché ma avevo paura che toccassero la macchina, andava tutto troppo bene.
 
“Vi aspettiamo al punto 34 dopo la prossima prova, faccio convergere la veloce il furgone e l’elicottero” Fu la risposta di Bortoletto dall’elicottero.
 
Il pilota dell’elicottero atterrò in un punto incredibile infilandosi sotto i fili della luce con una maestria mai vista, un vero capolavoro.
I meccanici del furgone avevano appena iniziato a togliere il paracoppa quando furono rilevati dai due dell’elicottero, i migliori del team. Scesero a testa bassa con una piccola cassettina dei ferri in mano quasi correndo.
 
“Quanto abbiamo qui” chiesi a Loris.
“Diciotto minuti”
 
Mi buttai all’ombra tranquillo aspettando che finissero il lavoro, ma qualcosa non andava. “Dai ragazzi fate questo miracolo” Disse ad un tratto Bortoletto facendomi sobbalzare dall’ oblio in cui ero perduto quasi assaporando la vittoria che stava per arrivare.
“Miracolo? Che succede!” “Tre minuti ragazzi” urlava Loris mentre in giro c’era ancora di tutto.
“Ma cazzo, ieri avete cambiato tutti e due i bracci ad Alex in dieci minuti e adesso fate pagare me, con diciotto minuti a disposizione?”.
 
Nessuno parlava ma avevo la sensazione che ci fosse un modo di lavorare strano o perlomeno non abituale per quei meccanici fantastici.
 
“Iniziamo a pagare, salta su e metti le cinture svelto!” urlava ancora Loris.
“Porca puttana ma tutte a me capitano?”
 
Finalmente la macchina ricadde sul terreno con le due gomme e il braccio nuovi. Il c.o. era a duecento metri e pagammo tre minuti.
 
“Non fa niente siamo sempre in testa penso… dai andiamo, non riesco a capire come sia potuto succedere, sono i migliori” Esclamò Loris scuotendo la testa mentre con l’indice picchiava nervosamente il tripmaster elettronico per azzerarlo.
 
Neanche duecento metri dopo l’inizio prova, subito dopo un tornante la ruota si apre, proprio l’anteriore sinistra quella su cui era stato effettuato l’intervento. L’elicottero era sopra di noi, ci guardavano da non più di venti metri.
Scesi e mi buttai sotto per vedere che era successo.
 
“Qui pare che si sia sfilato il bullone che tiene la testina al montante, venite giù un attimo, ci mettete due minuti”
“Non possiamo atterrare dobbiamo andare via per seguire le altre macchine siamo in ritardo…”
“Buttateci almeno i ferri lo rimettiamo noi!” Non ottenni nemmeno una risposta mentre l’elicottero virava tra il polverone, alzandosi e puntando verso l’enorme lago che ci guardava immobile nella calura estiva. Lo stomaco si contrasse quasi in un conato di vomito.
 
“Ma non potete lasciarci qui con il rally vinto” Urlò Loris alla radio.
“Quando sono passati tutti il furgone vi recupererà, tornate in albergo noi andiamo via…”
 
Guardai bene e pochi metri prima trovai il bullone in mezzo alla strada, bello nuovo, sfilatosi perché non era mai stato messo il dado che lo doveva bloccare.
 
Passarono lentamente tutti, ci guardavano e sicuramente pensarono “uno in meno” poi venne il furgone, non so ancora perché ma ci cambiò il braccio nuovamente, forse un riflesso di rabbia anche del meccanico che aveva assistito impotente alla scena. Da solo ci mise meno di dieci minuti, prendemmo la direzione di Atene con una rabbia enorme, la macchina era perfetta nemmeno il volante storto.
 
Sul Corriere della sera e su altri quotidiani scrissero che mi ero ritirato dopo aver staccato una ruota a causa di un maldestro atterraggio dopo un salto…
 
La verità invece era un’altra.
Alcuni anni dopo in un ristorante di Sanremo cenai con alcuni meccanici che direttamente o indirettamente erano stati presenti a quel fatto.
“Guarda” mi disse sottovoce uno di loro “Sappiamo tutti com’è andata, tu quella gara non la dovevi finire altrimenti non c’era la scusa per lasciarti a casa dopo, sai come funziona no?”
Il mare lì fuori stava quieto, come il lago quella volta, guardai la luna accesa e bianca come le mura millenarie dell’Acropoli, un sospiro e quasi una lacrima ad avallare i miei sospetti di sempre, la vita aveva già girato pagina, i ricordi spesso tornano nelle notti tormentate quando si immagina come in un film cosa sarebbe stato se le cose avessero seguito il loro corso...
 
("Rally - Il sapore della passione", di Vittorio Caneva)
 

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LA STRATOS CHE DIVENTO' UN CANOTTO
 
Il Drago racconta
 
"Africa. Safari Rally. 1977. Io, Piero Sodano e la Stratos siamo ancora alle prese con il Kenya, con il periodo delle piogge e con tutti gli imprevisti che quella gara si divertiva a riservarci. Acqua, sempre, notte e giorno, violenta, incessante, senza tregua.
 
Dunque, io e Piero, dopo quattro giorni di guida in tutte le condizioni, scendevamo finalmente da una collina per agguantare un pezzo di strada dritto che ci avrebbe dovuto far tirare il fiato. Saranno state le 4 o le 5 del mattino, il sole cominciava a spuntare all'orizzonte e le palpebre pesavano come due macigni sopra le nostre facce stravolte. Con gli occhi a fessura, vediamo a un tratto qualcosa da lontano, di fronte a noi. Una sorta di riverbero, un luccichio, che tuttavia non ci permetteva di indovinare di cosa si trattasse. Percorriamo ancora un po' di strada e i nostri dubbi si sciolgono come neve al sole.
 
Immaginate un lago, un'enorme lago proprio dove in realtà sarebbe dovuta essere la strada da seguire. Capperi. E adesso? Dopo aver spento il motore, scendiamo per verifìcare l'entità del problema, che subito ci appare piuttosto rilevante. Pietro prova ad avventurarsi, ma l'acqua gli arriva di colpo all'ombelico, quindi batte la ritirata. Non c'era modo di andare avanti. Se avessimo tentato avremmo sicuramente corso il rischio di affondare con tutta la Stratos.
Quando tutto sembrava perduto - compreso il nostro vantaggio sugli altri partecipanti - ecco che la fortuna ci viene in soccorso. Un gruppo di abitanti del luogo, incuriositi da ciò che stava accadendo - abbastanza insolito per le loro abitudini - si stava avvicinando alla nostra auto, per scrutarla in lungo e in largo.
 
Idea. Per un po' di scellini li convinciamo a darci una mano. L'unica è che i ragazzi venuti ad aiutarci si mettano nell'acqua per delimitare con la loro presenza la strada, come paletti. Tra le risate, la paura e il sonno, iniziamo ad avventurarci. Il problema era che il lago, lo scoprimmo dopo, durava circa un chilometro, cosa che mi costrinse a guidare in prima a 8000 giri con l'acqua che mi arrivava allo stomaco, rischiando di spaccare il motore.
Ma ancora una volta la fortuna ci aiutò. Proprio perché eravamo i primi, fummo infatti costretti a spegnere il motore, raffreddandolo involontariamente. Se invece fossimo andati dritti con il motore caldo, la differenza di temperatura con l'acqua gelata avrebbe crepato il basamento del motore, e allora ti saluto. Ed è quello che è successo a chi seguì dopo di noi: trovarono infatti gli abitanti del luogo che indicavano loro la via, e col motore bello caldo percorsero quella maledetta strada "subacquea". E fu un errore fatale".
 
SANDRO MUNARI

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DIARIO LATINO AMERICANO

Può accadere, nei rally dell’America Latina, di ricevere in premio un toro. Mi capitò una quindicina di anni fa, durante una corsa che si disputava nella Amazzonia peruviana, la “Marginal de la Selva”: una lunga prova speciale sterrata di 3500 chilometri tra piantagioni di coca, con partenza e arrivo a Lima. Avevo a disposizione una Renault 12 Alpine, nel bagagliaio erano stipati i ricambi e sul tetto trovavano posto le gomme di scorta, rigorosamente di serie. Al traguardo di ogni tappa era previsto un premio in natura per il vincitore. A San Ignacio, un insediamento che rappresentava la linea di metà gara, arrivai davanti a tutti e vinsi un toro. Immediatamente, senza neppure togliermi la tuta, improvvisai un’asta nella piazzetta del villaggio. Riuscii a vendere l’animale all’unico macellaio della zona, intascai i soldi e ripresi la gara ripercorrendo al contrario lo stesso itinerario.

Un’altra volta, durante il “Gran Premio di Bolivia”, ci fermammo a pernottare in un luogo in cui non c’era nulla, né luce né acqua; dormimmo in tende allestite dai militari. Era il villaggio in cui, qualche tempo prima, era stato ucciso Ernesto Che Guevara.

I rally dell’America latina, e dell’Argentina in particolare, hanno un fascino irresistibile. Noi le corse le intendiamo in questa maniera, lunghe, impegnative, massacranti; stare al volante parecchie ore non ci affatica. Per molti anni siamo stati esclusi dall’automobilismo internazionale, dal resto del mondo. Dunque abbiamo dovuto inventarci una maniera di correre tutta nostra, molto lontana da quel superprofessionismo a ogni livello che caratterizza il rallismo europeo. Eppure, anche noi siamo lavoratori del volante.

Il “Gran Premio de la Hermandad”, letteralmente della Fratellanza, si corre da Rio Grande, nella Terra del Fuoco, quindi Argentina, a Puerto Porvenir (Avvenire) in Cile, e ritorno. In totale fanno 8mila chilometri, sotto la pioggia e su strade dove al fango si alterna il ghiaccio perché il rally si disputa in agosto, che a questa latitudine vuol dire inverno. Il Gran Premio de la Hermandad l’ho vinto 5 volte consecutive, dall’81 all’85, con una Renault 18 di fabbricazione argentina. È una competizione molto spettacolare. Il giorno della partenza a Rio Grande è festa solenne. Per la gente di questo posto dimenticato da Dio e dagli uomini è l’occasione per riprendere i contatti col mondo. Il valico di frontiera tra Argentina e Cile è lasciato aperto al passaggio degli equipaggi, quindi non si fa dogana. Fino a qualche anno fa, quando in Argentina l’inflazione era alle stelle, capitava di vedere qualche vettura da corsa rientrare dal Cile più bassa rispetto alla tappa inversa. Nei bagagliai c’erano impianti stereo, videoregistratori e altro materiale hi-fi acquistati a prezzi vantaggiosi. Dunque, molto rally e un po’ “duty free”.

I piloti argentini, e in genere tutti i latino americani, hanno imparato ad arrangiarsi e a improvvisare. Nessuno prova molto, le ricognizioni sono limitate all’indispensabile e fino a metà degli anni ’80 non si utilizzavano le note. Pur di correre, siamo disposti a qualsiasi sacrificio. Anche di affrontare un viaggio di migliaia di chilometri con la stessa vettura con cui poi disputeremo la gara.

Ne rammento una in particolare, perché è legata a un successo importante, il rally “Camino del Incas” (Sentiero degli Incas), in Perù nel 1980. Aveva lasciato Cordoba con la Renault 12 da corsa, il meccanico che fungeva anche da coequipier, le solite gomme di scorta caricate sul tetto e i ricambi nel bagagliaio. Guidando ininterrottamente giorno e notte per 3500 chilometri raggiunsi Lima in 36 ore. Finalmente potevo riposare un po’; mi ero quasi dimenticato che cosa fosse un letto.

Controllai la Renault, quindi partecipai alla corsa peruviana, una classica in America latina con i suoi 3mila chilometri di strade sterrate molto impegnative, vincendola. Dopo aver intascato i premi, mi sobbarcai altri 3500 chilometri per rientrare a Cordoba. Totale, 10mila chilometri con la vettura da gara. Non ho mai considerato questo avvenimento un’impresa straordinaria. Per noi argentini situazioni come quella appena descritta sono del tutto naturali, né ci arrendiamo di fronte alle difficoltà.

Durante una “Transchaco”, una maratona di 2100 chilometri lungo i sentieri nelle umide foreste del Paraguay, completammo una tappa di 400 chilometri in 20 ore, dalle 6 della mattina alle 2 della mattina seguente: avanzavamo in un mare di fango utilizzando le catene da neve.

In Argentina lo sport automobilistico si identifica con le vetture “col tetto”, dunque con le berline, e con le corse su strada, i rally e fino a qualche tempo fa anche con le competizioni del Turismo de Carretera, che erano una specie di Mille Miglia latino americana, un po’ rally un po’ gare di velocità in linea, lunghe anche 4mila chilometri. Le tappe coprivano la distanza da una città all’altra, le medie erano attorno ai 200 chilometri orari; sui rettifili che corrono lungo le praterie anche per una ventina di chilometri, le Turismo de Carretera raggiungevano i 250-260 km/h. Oggi le vetture di questa categoria gareggiano soltanto in autodromo o in circuiti semipermanenti.

Così come Buenos Aires è il centro dell’attività in pista, la grande provincia di Cordoba lo è per i rally. L’ottanta per cento dei rallisti argentini è cordobese; io, Gabriel e Juan Raies, Pablo Peon e Jorge Bescham siamo tutti “cordobes”. Ci sono anche ottimi preparatori: una grande passione e l’arte di arrangiarsi li porta a compiere autentici miracoli con le Renault Gtx, le Fiat Regatta e le Volkswagen Gol, tutte di fabbricazione nazionale perché quelle di importazione non sono ammesse nel campionato argentino. Di giorno fanno i meccanici mentre la notte allestiscono le vetture da gara.

In questa regione le corse su strada hanno una solida tradizione e un grande seguito. Ciò è dovuto soprattutto alla facilità con cui possono essere allestiti percorsi molto interessanti, essendo Cordoba una provincia con una grande varietà di strade sterrate dal fondo eccellente, in pianura e in montagna, e una collaudata macchina organizzativa. È per questo motivo che il rally di Argentina, tranne in qualche occasione, ha in Cordoba la sua sede naturale. Ed è anche l’unico rally di rilievo internazionale che si disputa nel continente americano. Per nessuna ragione al mondo un pilota argentino rinuncerebbe a partecipare alla “Carrera Mundial”.

(JORGE RAUL RECALDE, Rallysprint n.3 - luglio 1994)

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Alcune foto dell'attuale presidente Aci-Csai, Angelo Sticchi Damiani, in gara al rally di Campania.

Le didascalie indicano l'edizione '77 per le due foto in auto, e '76 per l'immagine con Giacomo Scudieri fuori dall'abitacolo, ma non sono sicuro che siano corrette.

Le classifiche lo danno come 14° assoluto e 4° di Gruppo nel '77, ma non so se quella sospensione distrutta che si vede in foto abbia potuto consentirgli il risultato, e allora mi domando se le due immagini in corsa si riferiscano ad altro anno. Ma non trovo notizie...

 

sticchi campania 1977.jpg

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Il 31/10/2021 at 19:50 , sundance76 ha scritto:

Alcune foto dell'attuale presidente Aci-Csai, Angelo Sticchi Damiani, in gara al rally di Campania.

Le didascalie indicano l'edizione '77 per le due foto in auto, e '76 per l'immagine con Giacomo Scudieri fuori dall'abitacolo, ma non sono sicuro che siano corrette.

Le classifiche lo danno come 14° assoluto e 4° di Gruppo nel '77, ma non so se quella sospensione distrutta che si vede in foto abbia potuto consentirgli il risultato, e allora mi domando se le due immagini in corsa si riferiscano ad altro anno. Ma non trovo notizie...

 

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sticchi damiani rally campania 1977 monte vergine.jpg

sticchi damiani e giacomo scudieri rally campania 1976.jpg

Ho trovato in altro sito una foto a colori della n.52. La didascalia parla di una partecipazione di Sticchi e consorte al Rally di Yugoslavia 1977 (effettivamente svoltosi a maggio)....poi stabilire se corrisponde al vero è un bel problema...

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"Il rally della Costa d'Avorio è come battere la testa contro un muro: quando si smette ci si sente così bene..."

(Arne Hertz, navigatore di Hannu Mikkola, dopo essere arrivati 2° assoluti al Costa d'Avorio 1984 con l'Audi, dietro ai compagni di squadra Blomqvist-Cederberg, neo-campioni del mondo)

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