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  1. leopnd

    A.J. Foyt

    Antony-Joseph Foyt è nato il 16 Gennaio 1935 a Houston. vincitore di quattro edizioni della 500 Miglia di Indianapolis (1961, 1964, 1967 e 1977) e di 7 campionati USAC. Vincitore di due delle tre prove del Triple Crown (Indianapolis e Le Mans), è l'unico pilota al mondo ad aver vinto la Daytona 500, la 24 Ore di Le Mans e la 500 Miglia di Indianapolis. Vincitore anche della 24 Ore di Daytona, inoltre, con 67 vittorie detiene il record assoluto dei successi nelle gare di American Championship car racing. Figlio di un meccanico appassionato di corse automobilistiche, debutta nel 1953 con le midget, monoposto con le quali ottiene grande successo. Nel 1958 partecipa alla sua prima 500 Miglia di Indianapolis, gara che dal 1950 al 1960 è uno dei Gran Premi validi per il Campionato del Mondo dei Piloti. Nel 1960 domina il campionato USAC vincendo quattro gare. Nel 1961 vince la Indy 500 per la prima volta, si aggiudica altre tre corse e, nuovamente, fa suo il campionato. Nel 1962 il titolo USAC gli sfugge per poco ma si rifà l'anno seguente. Nel 1963 si ripete e conquista anche la sua seconda 500 Miglia di Indianapolis. Quello stesso anno la BRM lo ingaggia per correre due Gran Premi del Campionato Mondiale Piloti ma Foyt non riuscirà a parteciparvi. Nel 1965, dopo essere stato vittima di un brutto incidente in una gara di stock-cars, riesce a riprendersi miracolosamente ed a vincere cinque corse. L'anno dopo un altro grave incidente lo mette fuori combattimento e per Foyt si parla di ritiro. Ma AJ si riprende alla grande e, nel 1967, vince per la terza volta la Indy 500 conquistando anche il suo quinto titolo USAC. Quello stesso anni, inoltre,si aggiudica la 24 ore di Le Mans in coppia con Dan Gurney. Sempre nel 1967 è iscritto al Gran Premio del Belgio con una Eagle ma, a causa di una concomitanza di impegni, non riesce a parteciparvi. Tra il 1968 ed il 1974 ha un periodo nero ed è spesso battuto dai rivali Mario Andretti, Bob ed Al Unser. Nel 1972, inoltre, ha un altro grave incidente con ustioni ad entrambi le braccia. Nel 1975 ritorna in auge: vince sette corse ed il suo sesto titolo USAC. Tra il 1976 ed il 1978 si aggiudica sette gare, tra le quali, nel 1977, la sua quarta Indy 500: un record che divide con Al Unser e Ricky Mears. Nel 1979 è il vincitore di cinque delle sette care del campionato USAC che fa suo per la settima volta. Foyt partecipa gli anni successivi al neo costituito campionato CART. In questa serie non vincerà mai ma arriverà numerose volte secondo. Nel 1983 e nel 1985 vince la 24 ore di Daytona. Nel 1992 AJ Foyt prende parte per l'ultima volta alla 500 Miglia di Indianapolis: è la sua trentacinquesima partecipazione perché l'anno dopo, benché qualificato, decide di ritirarsi dalle competizioni.
  2. leopnd

    Richard Petty

    Noto a molti semplicemente come “The King” e inserito nella Hall of Fame della NASCAR, Richard Petty è il pilota più adornato nella storia delle corse NASCAR; ha vinto il numero record di 200 corse in carriera e 7 campionati NASCAR Cup nel corso della sua illustre carriera. Qualcuno potrebbe pensare che dopo 1184 gare distribuite nell'arco di tre decenni, "The King" sarebbe uscito di scena e si sarebbe ritirato in silenzio. Petty, comunque, aveva altre cose in mente; oggi è occupato come non mai e trascorre molto del suo tempo a sovrintendere alle operazioni della Richard Petty Motorsports.
  3. Andrea Gardenal

    Takuma Sato

    Takuma Sato, nato a Tokyo, Giappone, il 28 Gennaio 1977 Team: AJ Foyt Enterprises
  4. Andrea Gardenal

    USAC

    Lo United States Auto Club (USAC) è una delle federazioni sportive automobilistiche statunitensi. È l'istituzione principale per l'organizzazione di corse automobilistiche negli Stati Uniti. Nacque nel 1956 per sopperire all'abbandono del settore delle corse automobilistiche da parte dell'AAA (American Automobile Association), istituito nel 1902, dopo la disastrosa edizione del 1955 della 24 Ore di Le Mans. Dal 1956 al 1983 l'USAC ha organizzato gli United States National Championship e dal 1956 al 1997 la 500 miglia di Indianapolis. Oggi l'USAC organizza diversi campionati negli Stati Uniti, tra cui la Silver Crown Series, la National Sprint Car Series, la National Midget Series, la .25 Midget Series, la Ford Focus Series, e la TORC Series (riservata ai fuoristrada). È inoltre l'organizzatore della celeberrima cronoscalata Pikes Peak International Hill Climb e del Gran Premio motociclistico di Indianapolis. Le Indy Cars sbarcano sul suolo inglese, autunno 1978 Foyt vince a Silverstone, Mears a Brands Hatch
  5. leopnd

    Chip Ganassi

    Floyd Chip Ganassi Jr, nato il 24.05.1958. e' stato un ex pilota, oggi proprietario della Chip Ganassi Racing. Da piu' di 30 anni nella scena automobilistica Americana, e' uno dei piu' conosciuti e vincenti "team owner" in circolazione. Attualmente la Chip Ganassi Racing corre nella Indycar, nella NASCAR e nella WeatherTech SportsCar Championship. Ganassi ha frequentato la Bob Bondurant Scuola Guida nel 1977. Ha vinto la sua prima gara in Formula Ford, all'età di 18 anni. Ha iniziato la sua cariera in Indycar nel 1982., dopo la laurea presso la Duquesne. Ha gareggiato nella 500 miglia di Indianapolis cinque volte (miglior piazzamento 8° nel 1983.). E' stato votato come Most Improved Driver nel 1983. (9° assoluto a fine stagione). Nel 1984. ebbe un gravissimo incidente a Michigan che interoppe la sua carriera da pilota. Ritornò alle gare brevemente nel 1986. (IMSA, Le Mans, CART). Dal 1988. comincia la sua carriera da team owner, prima come co-proprietario della Patrick Racing, e poi, nel 1990. come proprietario della fresco fondata Chip Ganassi Racing...
  6. leopnd

    Mark Donohue

    Oggi sono 45 anni dalla scomparsa di Mark Donohue, vogliamo ricordarlo con un bel racconto di Giorgio Terruzzi di qualche anno fa... Mi è venuto in mente così: pa-pam. Una Ferrari 512M, direi. Daytona, scommetterei. Anno? 1971. Ventiquattro ore di gara. Campionato Mondiale Marche, con quelle carrozzerie da vento bucato, velocità e fari nella notte che volavano in pista e nella fantasia di noi, ragazzini di allora. La Ferrari, quella là, era blu cobalto con fregi gialli, i colori dello sponsor, Sunoco. Ricordo di aver atteso notiziari radiofonici nella notte e poi all’alba. Perché quella macchina nata rossa, eccezionalmente dipinta di blu e giallo, mi piaceva da matti. Così come il pilota che la guidava: Mark Donohue. Una faccia da pacioccone molto yankee, la faccia di un ragazzo che portava nelle nostre stanze le tracce ancora rare e curiose di quell’America là. Camicie con i nomi ricamati a svolazzo sul petto, giubbotto con le maniche di colore diverso dal resto, l’adesivo “STP” da appiccicare ovunque, elettrodomestici cromati, bowling e automobili sterminate. Mark Donohue viaggerebbe verso il suo compleanno numero 80 nel 2017. Nato a Haddon, New Jersey, il 18 marzo 1937. Morto all’ospedale di Graz, in Austria il 19 agosto 1975, dopo un incidente in prova, alla vigilia di quel Gran Premio. Incidente che aveva causato la morte anche di un commissario di pista, colpito da alcuni frammenti della vettura. Guidava una March del team Penske, la squadra del suo amico Roger, Roger Penske appunto, con la quale aveva viaggiato forte e vinto un po’ dappertutto, in America soprattutto, compresa una 500 Miglia di Indianapolis, anno 1972, per non parlare delle gare Can Am, dominate in lungo e in largo. Di questo pilota eclettico, laureato in ingegneria meccanica, straordinariamente abile nella messa a punto, poco sapemmo e pochissimo è rimasto. Così mi pare bello e persino giusto ricordarlo ora qui. La sua carriera in F.1 fu breve, tre anni scarsi (1971, 1974 e 1975), con un terzo posto al debutto in Canada sopra una Penske che utilizzava telaio McLaren, una quantità di piazzamenti non proprio eccellenti, una qualità sempre riconosciuta e apprezzata...
  7. leopnd

    Willy T. Ribbs

    Prima che Lewis Hamilton diventasse campione del mondo per la prima volta, nel 2008, i piloti con un colore della pelle diverso dal bianco si contavano sulle dita di una mano. Ma uno di loro, in particolare, ha vissuto una storia così travagliata e piena di significati, Willy T. Ribbs, il primo pilota afroamericano a qualificarsi per la 500 Miglia di Indianapolis. William Theodore Ribbs Jr. nacque il 3 gennaio 1955 a San Jose in California. Suo padre era un pilota amatoriale, amico con il pilota Indycar Joe Leonard. Famiglia medio-borghese, Ribbs vinse le resistenze familiari per andare a correre all’estero, e nel 1977 vinse 6 gare del campionato britannico di Formula Ford, attirando l’interesse del paddock. Finito il sogno europeo per mancanza di budget, fece una competitiva comparsata in Formula Atlantic e poi consacrò il suo talento nel campionato Trans-Am, dove vinse 17 gare laureandosi anche Rookie of The Year 1983. In seguito prese parte anche a 46 gare di Formula Cart/Indycar e ebbe qualche deludente esperienza anche nella Nascar. Il suo obiettivo era di prendere parte alla 500 Miglia di Indianapolis, e ci riuscì due volte con un 21° posto come miglior risultato nel 1993.
  8. leopnd

    John Andretti

    E’ morto John Andretti, nipote del pilota Mario. Aveva solo 56 anni e nelle scorse ore ha perso la sua personale battaglia contro il cancro. Era la primavera 2017 quando i dottori diagnosticarono ad Andretti il tumore al colon. Una notizia terribile ma John non si era abbattuto ed aveva iniziato a lottare come un leone fino alla buona notizia del 2018. Un anno dopo la diagnosi, infatti, lo stesso uscì allo scoperto dopo aver concluso il ciclo di chemioterapie, spiegando che il cancro si era fermato, e che quel terribile nemico aveva perso la sua battaglia. Nel frattempo lo stesso John aveva deciso di iniziare una campagna di sensibilizzazione attraverso la sua esperienza, #CheckIt4Andretti: “Non avrei mai parlato della mia situazione – raccontò in un’intervista di poco tempo fa – se non avessi pensato che questa cosa potesse essere utile per aiutare qualcuno. Sono una persona riservata”. Peccato però che il cancro, nel 2018, aveva perso solo una battaglia, e si stava riorganizzando per la guerra, che si è appunto conclusa, con la sua triste vittoria, in queste ore. John Andretti non ce l’ha fatta, come comunicato dalla Andretti Autosport. Così come la maggior parte della sua famiglia, aveva dedicato la sua vita alle corse automobilistiche, anche se senza ottenere mai risultati esagerati. Il punto più alto è stato senza dubbio la vittoria con le Nascar a Daytona, pista storica, nel 1997. Con le stock car ha corso fino al 2010, ottenendo in totale due vittorie (l’altra nel 1999 a Martinsville) e disputando ben 393 gare. 37 volte si è piazzato nelle prime dieci posizioni. John Andretti ha corso anche tre stagioni nelle Indy Car, altra storica serie motoristica d’oltre oceano, vincendo una volta, in Australia nel 1991. Ha corso per ben 12 volte la 500 miglia di Indianapolis e sempre nel 1991 ha ottenuto il suo miglior piazzamento, il quinto posto.
  9. leopnd

    Eddie Lawson

    Buon 58. compleanno... Eddie Lawson (Upland, 11 marzo 1958) è un pilota motociclistico statunitense ritiratosi dalle competizioni e quattro volte iridato nella classe 500 del motomondiale. Eddie cominciò prestissimo a cimentarsi con le due ruote. Era, infatti, il 1965 quando partecipò alla sua prima gara di minimoto. Dodici anni più tardi, invece, cominciò a vincere sulle piste da dirt-track con una Yamaha 750. E agli inizi degli anni ottanta cominciò a vincere anche sui circuiti di velocità, aggiudicandosi più volte la “100 Miglia di Daytona” e il Campionato AMA Superbike. Poi, nel 1983, l’ingresso nel “Gotha” del motociclismo... Aveva chiuso il 1983 sul podio, il quarto di quella stagione che lo aveva visto esordire tra i grandi del motociclismo. Ma Eddie Lawson, nonostante tutto, teneva il volto basso, cercando di evitare lo sguardo risentito del suo caposquadra Kenny Roberts, che gli aveva rimproverato di non essere riuscito a tenere a freno quello “sfacciato” ragazzino della Louisiana il cui nome era Freddie Spencer. Perché per Kenny, quello del 1983, avrebbe voluto dire il quarto titolo mondiale. La Yamaha e Roberts avevano scommesso su Eddie e gli avevano affidato un compito difficile, forse troppo. Anche per un esordiente di lusso come lui. Era venuto meno al suo dovere di scudiero, e questo lo fece sentire inadatto ad un ruolo così importante. Un uomo sbagliato al posto sbagliato. Una sola gara era bastata a cancellare quanto di buono era stato fatto fino ad allora. Ma quel giorno, dentro di lui, qualcosa scattò. Qualcosa di grande, che lo portò a vincere, nei sei anni successivi, ben quattro titoli mondiali nella classe regina (1984-1986-1988-1989). Prima contro Spencer e poi contro Gardner. Prima con la Yamaha e poi con la Honda. Pilota “pulito”, veloce e molto costante, cadde pochissimo nella sua decennale carriera in 500, e proprio per questo era stato soprannominato “steady”. Ma Eddie era, soprattutto, un “ragioniere” delle due ruote. Maniacale nella messa a punto della moto, non scendeva mai in pista senza una tattica ben precisa. Che spesso si rivelava vincente. Come testimoniano i 78 podi ottenuti in carriera sulle 130 gare disputate, di cui 31 sul gradino più alto. Nel 1990, Kenny Roberts lo chiamò nel suo team per guidare la Yamaha ufficiale. Eddie accettò, convinto anche di poter restituire al suo amico Kenny quel titolo perso nel 1983 a causa della sua “inadeguatezza”. Ma il grave incidente di Laguna Seca, secondo appuntamento della stagione mondiale, lo mise fuori dai giochi per sei Gran Premi. E quando tornò si trovò nuovamente nello scomodo ruolo di scudiero, proprio come sette anni prima. Ma questa volta andò diversamente e il suo compagno Wayne Rainey si aggiudicò il titolo mondiale. Saldato, seppur indirettamente, il debito con Kenny Roberts, nel 1991 accettò l’offerta della Cagiva di sviluppare la nuova C591. Per Eddie fu come nascere una seconda volta. E proprio con la “rossa varesina” ottenne, nel 1992, l’ultimo successo della sua brillante carriera. Aveva vinto la sua scommessa: trasformare la Cagiva in una moto vincente. Nel 1996 partecipò al campionato automobilistico della Champ Car con il team Galles Racing International partecipando a 11 gran premi. Il suo miglior piazzamento fu un sesto posto, alla fine della stagione totalizzò un totale di 26 punti di cui 18 in circuiti cittadini (Australia, Long Beach, Detroit) e 8 in circuiti ovali (U.S. 500 Michigan International Speedway). Si piazzò quarto nella lista dei Rookie (i piloti debuttanti) dietro a Mark Blundell, Greg Moore e Alex Zanardi che vinse questa speciale classifica.
  10. leopnd

    Kyle Busch

    Kyle Busch, una carriera leggendaria ancora tutta da scrivere Vorrei iniziare questo omaggio a Kyle Busch con una domanda (se volete retorica) che mi sono fatto pensando alla sua carriera: quando uno sportivo diventa una leggenda? Quando vince a ripetizione? O quando porta a casa una serie di campionati? Quando continua a trionfare nonostante l’età che avanza? Oppure quando conquista successi in diverse ere della categoria? Quando raggiunge traguardi mai toccati da nessuno? Sicuramente è una combinazione di tutte queste cose e non lo si diventa da un giorno all'altro. Io invece sono una persona più pratica che filosofica e quindi ho bisogno di dati e statistiche, non di riflessioni. E dunque vi espongo la mia – discutibile – proposta: uno sportivo nell'era di Internet diventa una leggenda quando su Wikipedia la lista completa delle sue vittorie è una voce separata da quella personale. Lo so, è una interpretazione puramente basata sui numeri e su parametri di formalità estetica di una enciclopedia online, ma è pur sempre un dato notevole, riservato a ben pochi sportivi. E allora posso dire che Kyle Busch è “diventato” una leggenda dello sport il 18 gennaio del 2017. E non passa settimana che questa voce venga aggiornata. Dopo questa dissertazione, torniamo al vero omaggio a questo pilota che lo scorso weekend ha raggiunto la quota incredibile di 200 vittorie in Nascar. Lo sappiamo bene, non si possono fare confronti con le 200 vittorie di Richard Petty e nemmeno lo stesso Kyle vuole che siano fatti. Sarebbe come confrontare le mele con le pere. Possibilità diverse, categorie diverse, regolamenti diversi, tutto è cambiato dal 1984, anno dell’ultima vittoria di Petty, al 2004, quando ci fu il primo successo di Busch. Richard Petty ha conquistato 200 vittorie in Cup Series e questo basterebbe per chiudere i conti. Ma anche lui ha i suoi asterischi. Ad esempio, ha vinto anche una gara nelle Convertible, una categoria che allora (alla fine degli anni '50) era considerata alla stregua della Xfinity o dei Truck, ma non viene conteggiata nelle 200. Petty poi ha corso quasi 15 anni nella prima era della Nascar, quella ad esempio in cui il calendario del 1964 prevedeva 62 gare (e Richard le corse in pratica tutte vincendone “solo” 9). E’ l’era pre-Winston Cup (iniziata nel 1972), l’era delle 27 vittorie in 48 gare disputate nel 1967. Periodi che – come si può capire – non si possono comparare. Quando Kyle Busch nasce a Las Vegas il 2 maggio 1985, Petty ha già conquistato la 200esima e ultima vittoria l’anno precedente, il 4 luglio 1984 a Daytona, in una giornata storica cominciata con Ronald Reagan che dall'Air Force One in viaggio verso la Florida dice il classico “Gentleman, start your engines!” e poi, una volta atterrato, va in tribuna stampa, commenta una fase della gara alla radio e poi alla fine si fa ovviamente una foto col più vincente di tutti i tempi. La carriera di “The King” durerà ancora fino al 1992 ma in quel 1985 ha già 47 anni. Quel 2 maggio è un giovedì, la domenica precedente Petty è arrivato settimo a Martinsville, la domenica dopo si ritirerà a Talladega per la rottura di una valvola e sicuramente non lo sa che dall'altra parte dell’America è nato uno dei suoi eredi. La carriera di Busch inizia in una delle classiche downtown americane, quelle con le casette indipendenti e le stradine chiuse con pochissimo traffico. E' qui, in Duneville Street, che papà Tom, ex pilota sugli short track, costruisce due kart per i suoi due figli, Kurt (di sette anni più grande) e Kyle. Da qui il passo verso il Bullring, lo storico ovale sterrato di Las Vegas, è breve. Il primo ad arrivarci è ovviamente Kurt, ma il fratellino ad appena 10 anni lo segue e ne diventa il crew chief. Poi, a 13 anni, scende anche lui in pista e le vittorie fra Legends e Late Model arrivano numerose fra il 1998 e il 2001. Ma al suo fianco non c'è più il fratellone, dato che nel 2000 è stato scelto da Jack Roush per la Truck Series (arriverà secondo in campionato) e a fine stagione debutterà in Cup Series. Kyle Busch ha 16 anni quando - evidentemente anche su consiglio di Kurt - viene scelto anch'egli da Roush per sostituire a metà stagione sulla vettura #99 il facilmente dimenticato Nathan Haseleu (che a sua volta aveva preso il posto di Kurt passato definitivamente in Cup Series). Il debutto ufficiale arriva il 3 agosto 2001 (a soli 16 anni e 3 mesi di età) all'Indianapolis Raceway Park. Qui Kyle si qualifica "solo" 23°, ma poi in gara risale fino al nono posto finale. E così arriva subito la prima (di 642) top10 in Nascar. Il suo nome è già sulla bocca di tutti. Due settimane dopo - all'ora demolito Chicago Motor Speedway - parte quinto ed è per la prima volta in testa ad una gara al giro 147, quando ne mancano soltanto 28 alla fine. Poi arriva una caution e alla ripartenza ai -12 rimane senza carburante, spegnendo i suoi sogni di vittoria. Kyle capisce che può vincere e inizia a spingere, ma arrivano ovviamente anche i guai di gioventù: a Richmond va in testacoda (22°), a South Boston perde una gomma (33°), in Texas va a muro (25°), infine a Las Vegas arriva un altro nono posto dopo essere partito terzo. L'ultima gara in programma per Kyle in questa stagione di debutto è a Fontana. E nelle libere - al debutto su un ovale da due miglia - è in testa. Poi però arrivano i responsabili della Nascar e gli dicono che non potrà gareggiare. Il problema è che la corsa dei Truck - un po' come avviene ancora oggi in Texas - si svolge in combinato con la gara della CART (vinta poi da Cristiano Da Matta) e questa è sponsorizzata dalla Marlboro. E secondo il "Tobacco Master Settlement Agreement" del 1998 un pilota minorenne non può partecipare ad un evento sponsorizzato da una marca di sigarette. E' una interpretazione particolare della legge (dato che la gara dei Truck non è sponsorizzata direttamente dalla Marlboro), ma Kyle non può fare altro che togliersi il casco e tornare a casa. La sua stagione da rookie termina così, bruscamente. Archiviato questo caso si può pensare al 2002, vero? No, purtroppo per Kyle no. Sei settimane più tardi la Nascar impone che tutti i partecipanti alle sue competizioni abbiano almeno 18 anni, dato che - bisogna ricordarlo - la Cup Series è sponsorizzata dalla Winston e quindi il problema si ripropone. Dunque cosa si fa? Si passa alla ASA (ottavo in campionato), ma soprattutto viene scelto come dal Team Hendrick per il suo junior team. Nel 2003, in attesa che arrivi maggio, disputa due gare nella ARCA Series (due vittorie), poi il 24 maggio arriva il "secondo debutto" a Charlotte, stavolta in Xfinity (allora Busch) Series sulla vettura #87 del NEMCO Motorsports. In qualifica è quinto, poco dopo metà gara è in testa e nel finale la caution provocata da Greg Biffle gli impedisce di attaccare Matt Kenseth; arriva "solo" un secondo posto, bissato poi a Darlington a fine estate. Dopo due anni di ritardo, il 2004 è dunque la prima stagione completa in Nascar e il sedile è quello della vettura #5 del team Hendrick in Xfinity Series. Dopo qualche corsa di ambientamento, il 14 maggio 2004 a Richmond parte dalla pole, domina guidando per 236 giri su 250 e vince la prima delle sue 200 gare in Nascar. E a 19 anni e 12 giorni manca il record di vincitore più giovane della categoria (Casey Atwood, 1999) per un paio di mesi. Ma non gli sfugge il record - eguagliato, 5 - di maggior numero di vittorie per un rookie, dato che verrà battuto solo nel 2018 da un suo protetto, Christopher Bell. Potrebbe anche laurearsi campione, ma una estate terribile (in sette gare ottiene una vittoria e poi zero top10) lo penalizza e il titolo va al suo attuale compagno di squadra al JGR Martin Truex Jr. Ad ottobre Terry Labonte, a 48 anni e dopo i titoli del 1984 e 1996, annuncia il ritiro dall'attività a tempo pieno e quindi il suo erede sulla vettura #5 per il 2005 non può che essere Kyle Busch. Così, dopo il debutto saltato a Homestead nel 2003 e le 9 gare non esaltanti del 2004 (tre DNQ e zero top20), arriva il turno per dimostrare tutto il suo talento. L'apice della stagione lo raggiunge a Fontana, due volte: alla seconda gara stagionale, a soli 19 anni, 9 mesi e 25 giorni diventa il più giovane poleman della storia della Cup Series e a settembre ne diventa a 20 anni, 4 mesi e 2 giorni il più giovane vincitore di una gara; curiosamente entrambi i record verranno battuti fra 2009 e 2010 da Joey Logano, quello della pole per appena due giorni. Sono solo i primi record ottenuti dal pilota di Las Vegas. Il 2005 è anche l'inizio della prolifica collaborazione con il team di Billy Ballew nei Truck: alla prima gara insieme a Charlotte, Kyle vince subito. Ha 20 anni e 18 giorni e anche qui è il più giovane della storia, ma questo record, a differenza di quello della Cup Series, non sarà sorpassato di soli due giorni ma verrà abbattuto prima da Ryan Blaney, poi da Chase Elliott, Erik Jones e infine da Cole Custer che ora detiene il primato ad appena 16 anni, 7 mesi e 28 giorni, perché nel frattempo la "regola Kyle Busch" - introdotta nel 2001 a causa della Winston - non è più in vigore e il limite minimo d'età per gareggiare nelle categorie minori è sceso a 16 anni. I successivi due anni sono buoni, ma non eccezionali, sicuramente non all'altezza delle aspettative. Dopo le due vittorie (Fontana e Phoenix) dell'anno da rookie e l'unica del 2006 (New Hampshire; sarà 10° in campionato), il 2007 è l'anno cruciale della sua carriera: vince subito a Bristol - è il debutto della "Car of Tomorrow" e nonostante il risultato Kyle, che non ha peli sulla lingua, dice chiaramente di non amarla - poi si susseguono buoni risultati ma zero successi e i rapporti col team cominciano a degenerare. I primi segnali arrivano ad aprile, quando in Texas al giro 253 tampona Dale Jr. nella nuvola creata dal testacoda di Stewart. Kyle porta la vettura nel garage, pensa che sia la fine della sua gara e lascia il circuito senza dire nulla a nessuno. Peccato per lui che i meccanici riescono a riparare la vettura, ma gli manca il pilota. E chi trovano pronto nel garage? Proprio Dale Jr.! Così il pilota del DEI sale a bordo di una vettura del Team Hendrick. E' solo la scintilla: un mese dopo Jr. ufficializza la rottura - già nell'aria - col team fondato da suo padre e ora controllato dalla matrigna. Inizia la caccia al pezzo pregiato del mercato (in tutti i sensi, visto il giro economico attorno a Jr.) e parte l'effetto valanga: a maggio alla All-Star Race Kyle si scontra con il fratello Kurt e ci vuole solo l'intervento della nonna alla Festa del Ringraziamento per farli riconciliare e il 13 giugno Dale annuncia il suo approdo al team Hendrick. Chi se ne andrà dunque? Gordon e Johnson sicuramente no, dunque sarà uno fra Casey Mears e Kyle Busch, ma tutti sanno già chi; la conferma arriverà dallo stesso Busch due giorni dopo. Ad agosto firma con il Joe Gibbs Racing per sostituire JJ Yeley e può iniziare la fase attuale della sua carriera. Si apre così una nuova pagina per Busch, e che pagina: con le nuove Toyota del JGR ottiene subito otto vittorie, tra cui quella di Atlanta, il primo successo del costruttore giapponese in Cup Series, e quelle di Talladega in primavera e Daytona in estate, a tutt'oggi gli unici suoi successi su uno superspeedway. Non mancano le polemiche: nella prima gara di Richmond spedisce a muro ovviamente Dale Jr. (che nella sua mente gli ha rubato il posto), poi Jr. si vendicherà su Kyle nella seconda gara in Virginia. Nasce così una piccola faida ricomposta soltanto l'anno scorso. L'ottava vittoria arriva al Glen ad agosto e qui è in testa alla generale con 242 punti di vantaggio su Edwards. Tutto sembra in discesa verso il titolo malgrado il reset della Chase. E invece da lì in poi implode e chiuderà solo decimo. Poco male, si consola con 10 vittorie in Xfinity Series (sesto in campionato nonostante quattro gare saltate) e tre nei Truck per un totale di 21. E questo sesto posto in campionato gli impone di presenziare al banchetto finale e così salta un'occasione diventata poi unica: poter guidare la Toyota di F1. Il 2009 è finalmente il primo anno di gloria per Kyle Busch: sette vittorie nel consueto part-time nei Truck, "solo" quattro in Cup (fra cui la 50esima in carriera a Richmond), ma in questa stagione decide di dedicarsi completamente alla Xfinity Series per conquistare il titolo. La sfida è con il parigrado Carl Edwards e il giovane Keselowski (che diventerà in fretta il suo nemico #1). E' il periodo dei cosiddetti "Buschwhacker", non dal cognome di Kyle, ma dall'allora sponsor del campionato Busch. I big della Cup Series continuavano a voler correre nella seconda categoria per tutta la stagione, offuscando i giovani talenti grazie alle vetture (e gli aerei che permettono loro di volare per l'America nello stesso weekend) dei team più ricchi. Una tendenza che - oltre ai suoi comportamenti in pista - non lo ha reso molto simpatico ai tifosi dato che è stato lui uno dei principali vincitori di questa fase. Ma a Kyle piace correre e se c'è questa chance allora la sfrutta. A fine stagione i successi sono nove e il primo titolo Nascar è suo. Conseguito questo obiettivo, Kyle cambia strada. E la nuova sfida si chiama Kyle Busch Motorsports, un suo team per la Truck Series, per gareggiarci lui e per farci correre i nuovi giovani talenti della Toyota. E i Truck acquistati dal team Roush - quello che lo fece debuttare ma che adesso ha chiuso - e poi sviluppati da lui vanno molto veloce. Il 2010 è l'anno più vincente della carriera di Busch: tre successi in Cup Series, 13 (!) in Xfinity e otto nei Truck per un totale di 24. Inoltre a Bristol, nella prestigiosa tripla gara notturna di fine agosto, compie un'impresa mai ottenuta prima andando a vincere nello stesso weekend tutte e tre le gare. Ma a questo punto la Nascar si stufa dei Buschwhacker e impone ai piloti di poter ottenere punti solo in un campionato e non più dovunque corressero. E' solo il primo passo verso le regole attuali. E Kyle entra in una fase buia. Forse privato delle libertà di prima, non è più così sereno. In Cup arrivano le consuete quattro vittorie, in Xfinity in altre otto (di cui quella in New Hampshire è il successo n°100 e quella di Bristol gli permette di battere il record nella categoria di Mark Martin) e nei Truck sei, ma l'ultima apparizione stagionale rappresenterà il punto più basso della sua carriera. Texas, 4 novembre. La stagione dei Truck sta volgendo al termine e in lizza per il titolo ci sono ancora almeno cinque piloti. Austin Dillon ha una manciata di punti di vantaggio su James Buescher, Ron Hornaday Jr. e Johnny Sauter. Kyle Busch non è fra di essi - appunto - per le regole introdotte quell'anno. E' un battitore libero che punta solo alla vittoria parziale, ma quel giorno diventa troppo libero. Dopo appena 14 giri, durante un doppiaggio, Hornaday perde la linea e lui e Busch si appoggiano al muro. Sarebbe tutto a posto se non fosse che pochi istanti dopo, appena chiamata la caution, Busch decide di vendicarsi spedendo a muro Hornaday, il quale quindi perde una grossa chance di vincere il quinto titolo in carriera. E' una manovra oltraggiosa, tant'è che Kyle viene squalificato per tutto il weekend, saltando così anche le gare di Xfinity e Cup Series, fatto per cui perde anche lui un - seppur improbabile, ma ancora matematicamente possibile - campionato. Ai guai del 2011 possiamo aggiungere anche la multa presa al volante della sua Lexus LFA quando viaggiava a 206 km/h (!) quando il limite era di 72, ma qui trascendiamo nella vita fuori dalla pista. Può essere il 2012 peggiore del 2011? Sì. Disputa 36 gare in Cup Series, 22 in Xfinity con il suo KBM e non con il JGR e tre nei Truck da cui evidentemente si prende una pausa di riflessione per un totale di 61. E porta a casa solo un trofeo con la vittoria di Richmond in Cup Series, successo che non gli basta per qualificarsi alla Chase. Per fortuna Kyle è in grado di reagire, grazie alla fiducia confermatagli dal JGR e anche grazie al matrimonio con Samantha. E il 2013 e 2014 tornano sulla falsariga degli anni precedenti: tante vittorie complessive (21 nel 2013 e 15 nel 2014) ma il successo più agognato (il titolo della Cup Series) sembra sempre lontano. Inizia così il 2015, un anno importante per Kyle dato che compie 30 anni. Il suo debutto ufficiale a Daytona in Xfinity Series rischia di essere anche la fine della sua stagione: a 9 giri dalla fine sul rettilineo principale arriva il big-one e la vettura di Busch punta dritta verso il muro interno prima di curva 1. Kyle riesce a scendere dalla vettura e basta, la diagnosi è severa: frattura di tibia e perone della gamba destra e del piede sinistro. Dopo che diversi sostituti si prendono cura della #18 (fra cui da notare l'unica gara in Cup Series di Matt Crafton proprio alla Daytona500 del giorno dopo), Busch annuncia il suo ritorno alla All-Star Race dopo tre mesi di convalescenza e per sua fortuna l'esistenza della Chase non gli ha fatto perdere l'anno. Quel che basta è vincere una gara ed essere nella top30 in campionato. La seconda pratica è semplice, la prima - essendo Kyle Busch - ancora di più dato che in cinque gare estive ne vince quattro di cui tre consecutive. Rowdy è tornato e a Bristol in Xfinity Series ottiene anche la vittoria n°150 in carriera. I playoff sembrano andare come tutti gli anni passati, senza vittorie, ma alla fine grazie ad un terzo round di ottimo livello riesce a qualificarsi per il gran finale di Homestead. E' la prima vera chance che ha di conquistare il titolo e ovviamente non se la lascia scappare. Dopo il campionato della Xfinity Series del 2009 arriva per Busch anche quello della Cup Series e a questo punto non si possono più muovere critiche al suo palmarés. Queste ultime stagioni di Busch sono in linea con le precedenti, con tante vittorie, seppur limitate dai nuovi regolamenti che gli impediscono di correre quanto vuole in Xfinity e Truck Series (ora il numero massimo è rispettivamente di sette e cinque gare stagionali), ma non per questo i record non continuano ad arrivare. Nel 2017 bissa la tripletta di Bristol del 2010, nel 2018 con la vittoria alla CocaCola600 di Charlotte diventa il primo pilota della storia della Cup Series ad aver vinto almeno una gara su tutti i circuiti in cui ha corso (dopo possiamo discutere se il nuovo roval gli abbia rovinato di nuovo il tabellino oppure no), e infine ad Atlanta lo scorso febbraio sorpassa le 51 vittorie nella Truck Series di Ron Hornaday Jr. Il conto alla rovescia è iniziato da tempo, ma durante questo inverno il ticchettio si è fatto più rumoroso. Dal -6 della off-season, dopo Atlanta si è scesi a -5, poi dopo il weekend in casa a -3, il cappotto di Phoenix lo ha portato ad un solo passo dal numero magico. Arriva così il weekend di Fontana, proprio là dove venne fermato a 16 anni quando era in testa alle libere dei Truck e dove ottenne i primi risultati di rilievo in Cup Series nel 2005. Al sabato domina la gara della Xfinity Series ma poi una penalità lo ricaccia in fondo al gruppo e la rimonta finale, unita ad un ottimo Cole Custer, lo obbligano a rinviare le celebrazioni di almeno 24 ore. Si capisce che domenica mattina Kyle si è svegliato arrabbiato e domina di nuovo la gara. Poi incappa in un'altra penalità come il giorno prima, ma stavolta la fortuna lo aiuta con una caution al momento adatto. Anche la sorte si deve inchinare al talento immenso di Busch e il sorpasso a Logano e Keselowski in un colpo solo per ritornare in testa lo dimostra ampiamente. La bandiera con scritto 200 lo accompagna per il giro d'onore e anche gli avversari devono riconoscere che non c'era possibilità di battere Kyle (anche) oggi. Cosa manca adesso a Kyle Busch? Due cose sono sicure, la vittoria della Daytona500, talmente sospirata che a casa nello scaffale dei trofei ha lasciato lo spazio vuoto appunto per l' "Harley J. Earl Trophy" e un titolo nei Truck che completerebbe una tripletta di campionati mai realizzata da nessuno. Manca la "quota 100" - è a 94 - nella Xfinity Series, dopo la quale ha ammesso che si ritirerà dalla categoria, e dopo la vittoria di Phoenix ha dichiarato che vuole raggiungere anche le 100 vittorie in Cup Series (ora ne ha 53). Qualsiasi cosa manchi, o qualsiasi numero irreale voglia raggiungere, Kyle Busch ha dalla sua due vantaggi, il primo l'amore per questo sport - e questo anche i suoi numerosissimi haters, compresi quelli del "Ti piace vincere facile?", devono ammetterlo - e la seconda è l'età. Sembra incredibile ma Rowdy ha ottenuto tutto questo e non ha ancora compiuto 34 anni. Davanti a sé potrebbe averne ancora 10 di carriera e ciò spaventa sicuramente i suoi avversari. Intanto ha lasciato la sua impronta anche in questo 2019 in cui si è preso il ruolo di favorito nonostante siano passate solo cinque gare. Si è qualificato per Homestead in quattro delle cinque edizioni e dovunque si corra (escluse forse solo Daytona e Talladega) bisogna inserirlo sempre tra i favoriti. Per le 200 vittorie di Kyle Busch non possiamo parlare di record perché è l'unico in Nascar che ha mai tentato un'impresa del genere, l'unico che si è impegnato su più fronti in ogni weekend. Parliamo allora di traguardo storico, anche perché sarà quasi impossibile batterlo. Poi si può discutere quanto si vuole sulla posizione nella classifica dei migliori piloti di tutti i tempi, ad esempio alla sua età Jeff Gordon e Jimmie Johnson avevano vinto più gare e/o titoli in Cup Series, ma di questo è meglio parlarne alla fine della carriera. E a proposito di cifre tonde, la prossima milestone sarà decisamente più facile da ottenere: quella di domenica a Fontana era la sua gara n°998 in carriera, sabato nei Truck ci sarà la 999 e infine domenica a Martinsville, proprio sul tracciato più antico della Nascar, ci sarà la bandiera verde numero 1000. E quasi quasi c'è il dispiacere che i due dati impressionanti non siano arrivati in contemporanea bensì a sette giorni di distanza. Quello che è certo è che davanti a dei numeri del genere e davanti a una carriera così, possiamo solo inchinarci, così come ama festeggiare Kyle Busch dopo ogni vittoria. Qui trovate un file Excel completo con la lista delle vittorie di Kyle Busch. by @Gabriele Dri
  11. leopnd

    Formula 1 - Austin

    until
    Formula 1 Emirates United States Grand Prix www.circuitoftheamericas.com
  12. Andrea Gardenal

    Justin Wilson

    Justin Boyd Wilson, nato a Sheffield, South Yorkshire, Gran Bretagna, il 31 Luglio 1978 Team: Dale Coyne Racing
  13. Alcuni team sono già arrivati ad Indianapolis.
  14. Orari e info nell'event...
  15. leopnd

    IMSA - Detroit

    until
    Chevrolet Detroit Grand Prix Presented By Lear www.imsa.com
  16. leopnd

    Kyle Kaiser

    Dopo aver costruito un bel curriculum nel karting a partire dai 7 anni, il californiano Kyle Kaiser (05.03.1996.) è passato alla formula con Skip Barber nel 2009, vincendo il titolo di Rookie of the Year della Western Region e classificandosi 2° assoluto nel campionato 2009-10. Dopo il 3° posto nel Campionato Skip Barber Western Region 2010/11, Kaiser è entrato a far parte della World Speed Motorsports e ha conquistato il campionato Pro Mazda nella Formula Car Challenge 2012, vincendo 8 gare e terminando sul podio in 11 delle 14 gare. Ha fatto il suo debutto professionale a ruote scoperte nel settembre 2012 in Star Mazda (ora Indy Pro 2000 Series) a Laguna Seca. Kaiser ha chiuso al settimo posto nel Pro Mazda Championship 2013 e sesto nel 2014. Si è trasferito dalla Indy Lights nel 2015 al fianco del compagno di squadra Spencer Pigot. Nel 2016, Kaiser ha conquistato il terzo posto nella classifica finale del campionato, con vittorie a Phoenix e Laguna Seca e otto podi totali. Kaiser ha vinto il titolo Indy Lights del 2017 - e la borsa di studio Mazda che lo ha aiutato a laurearsi nella serie IndyCar NTT - con tre vittorie, tre pole position e otto podi in 16 gare.
  17. leopnd

    Al Unser Jr.

    Alfred Unser Jr. (Albuquerque, 19 aprile 1962) è un pilota automobilistico statunitense. Nel 1982 ha vinto il Campionato CanAm al volante di una Frissbee GR3-Chevrolet del Team Galles, mentre nel 1986 e nel 1988, ha vinto la International Race of Champions pilotando in entrambe le occasioni una Chevrolet Camaro. Ha gareggiato nella CART World Series dal 1982 al 1999, conquistando 31 vittorie, 7 pole position e vincendo il titolo nel 1990 con il Team Galles e nel 1994 con il Marlboro Team Penske. Con gli stessi team ha vinto due volte anche la 500 Miglia di Indianapolis (nel 1992 con il team Galles, nel 1994 con il team Penske), diventando il terzo Unser a vincere la 500 miglia, dopo suo zio Bobby (1968, 1975, 1981) e suo padre Al Sr. (1970, 1971, 1978, 1987). Tra l'altro la 500 miglia di Indianapolis vinta nel 1992 lo vide trionfare con 43 millesimi di vantaggio su Scott Goodyear, in quello che è tuttora il distacco più risicato della storia della competizione. Dal 2000 al 2003, ha preso parte alle intere stagioni della Indy Racing League, con ottimi risultati e 3 vittorie all'attivo. Negli anni seguenti, fino al 2007, ha corso solo alcune gare del campionato, tra cui l'immancabile 500 miglia di Indianapolis, non ottenendo però risultati di rilievo...
  18. aleabr

    Spencer Pigot

    Californiano, debutta nel 2016 con Rahal-Letterman dopo aver vinto il 2015 con il bonus di 3 gare (Florida e le 2 dell'Indiana). Dopo aver scalata molto velocemente la 'Road to Indy' vincendo tutto, si è temporaneamente accasato con la scuderia di Bobby. A giudicare dal pedigree sembra un predestinato e una delle future speranze americane e californiane! In Florida è giunto 14° al debutto.
  19. leopnd

    Sebring

    Il circuito di Sebring (Sebring International Raceway) è un tracciato per competizioni automobilistiche situato a Sebring, in Florida. Il circuito occupa una parte dell'aeroporto Hendricks Field che attualmente viene utilizzato dall'aviazione commerciale e generale ma che durante la seconda guerra mondiale fungeva da base per l'addestramento dei piloti dei B-17. Ha ospitato il Gran Premio degli Stati Uniti d'America nel 1959 e attualmente si svolge la famosa 12 Ore di Sebring, una delle gare classiche di questo sport. La caratteristica principale del tracciato, derivante dalla condivisione di parte della superficie con l'aeroporto, sono dei tratti realizzati in cemento con numerose giunture. Il passaggio da una sezione all'altra è piuttosto duro e provoca lo sfregamento del fondo della vettura con la pista, evidenziato da numerose scintille. Questo, insieme alla leggera inclinazione della superficie stradale, rende la pista, soprattutto in caso di pioggia, una vera e propria sfida per i piloti. Nel 1950 la sua lunghezza era di 5.300 metri (3,5 miglia) e questo primo tracciato, dopo aver percorso gli ampi piazzali che occupano la parte centrale del sedime aeroportuale, toccava la testata della Pista 14 e impegnava la pista principale dell'aeroporto (la 18, denominata The Straight) e in seguito la pista secondaria 27 (chiamata Back Straight), per riportarsi sul rettilineo del traguardo attraverso la lunga curva a 180 gradi denominata Sunset Curve. Già nel 1952 la pista fu estesa fino a 8.368 metri (5,2 miglia) per la prima 12 Ore; furono ridisegnate la prima curva e il tratto centrale, che ora deviava verso la parte occidentale del sedime percorrendo la lunghissima Big Bend fino al tornantino Hairpin nella zona dei magazzini, che costeggiavano il rettilineo Warehouse, per poi attraversare la esse Webster e reimmettersi nel precedente tracciato, sul rettilineo Green Park. Nel 1967 il rettilineo Warehouse e la esse Webster furono abbandonati, ma la lunghezza totale rimase pressoché invariata; la nuova versione prevedeva che subito dopo il tornantino Hairpin una chicane immettesse i concorrenti sul nuovo rettilineo Green Park, allungato di molto. Nel 1983 le esigenze contrastanti tra l'aeroporto e l'autodromo imposero una prima riduzione del tracciato in cui fu eliminato il tratto finale del rettilineo Green Park per liberare la testata della Pista 14 e i piloti svoltavano a destra all'altezza della vecchia Webster per attraversare i piazzali e immettersi sullo Straight, a circa metà della sua lunghezza; tale versione del tracciato era lunga 7.600 metri (4,75 miglia). Ma tale intervento non era che il preludio alla completa rivisitazione del tracciato avvenuta quattro anni dopo per separare le attività dei due impianti, confinando l'autodromo nella parte occidentale del sedime. La velocissima sezione First Bend - Second Bend - Tower Turn fu eliminata in favore di una secca curva a sinistra che con un breve rettilineo portava a un tornante a sinistra che immetteva nella Big Bend. Anche lo Straight fu abbandonato in favore di un serpeggiante allungo posto più a ovest che partiva dalla Webster, percorreva la nuova Tower (ora una curva a 45 gradi), passava sul retro degli hangar centrali e a ridosso della nuova First Bend e si innestava poi lungo il Back Straight, riducendolo. Infine anche la Sunset Bend fu trasformata da tornante a doppia curva, di cui la prima molto stretta, e la lunghezza totale fu quindi ridotta a 6.100 metri (4,1 miglia). Nel 1990, dopo la 12 Ore svoltasi sulla precedente configurazione, il circuito si presentava ancora più corto, con l'eliminazione della Webster e il tracciato che, a metà del rettilineo Green Park, svoltava a destra con la curva Cunningham (90 gradi), percorreva la Collier e raggiungeva direttamente la Tower, ora a 90 gradi. Anche il tornante a sinistra che immetteva nella Big Bend faceva spazio a una nuova serie di curve e la lunghezza totale del tracciato 6.020 metri (3,74 miglia). Nel 1997 fu modificato l'ingresso al Back Straight, stringendo la curva, mentre nel 1999 furono modificate la Sunset (allargata) e il tornantino Hairpin (anticipato e sostituito da una "serpentina"). Il circuito attuale misura 6,02 chilometri (3,74 miglia), è caratterizzato da 17 curve (alcune molto lente e alcune molto veloci) intervallate a lunghi rettilinei, è di proprietà della Panoz Motorsport e ha perso parte del suo carattere di tracciato "aeroportuale" in quanto, gran parte del percorso, somiglia agli altri circuiti permanenti. La prima gara venne svolta il 30 dicembre 1950 e fu dovuta all'idea di Alec Ulman, insieme alla moglie Mary e al colonnello C.D. Richardson, loro socio; la gara era nello stile della 24 Ore di Le Mans e le vetture che presero parte a questa competizione furono tredici. La prima vera 12 Ore avvenne il 15 marzo 1952 e l'anno successivo la gara venne inserita nel calendario della FIA come prima gara del campionato mondiale per vetture sport. Il 12 dicembre 1959 si svolse il Gran Premio degli Stati Uniti d'America di Formula 1 che rimane l'unica gara disputata su questo circuito. Nel 1972 la 12 Ore perse l'ufficialità della FIA, ma siccome in quegli anni stava emergendo la IMSA, la gara venne inclusa nel suo calendario. A fine anni novanta la 12 Ore è entrata a far parte del calendario del campionato ALMS, mentre dal 2014 fa parte dello United Sports Car Championship, una serie che è nata dalla fusione dell'ALMS con il campionato Grand-Am.
  20. Salve a tutti, pronto a partire per questo viaggio, che a differenza di quello precedente sulla Can-Am potrebbe non finire mai, tali e tante sono le storie da raccontare, perché ogni corsa e' un microcosmo fatto di mille mondi, abitati da creature fantastiche nate spesso dall'unione fra realtà così lontane tra loro da rendere impensabile il loro incontro ... a fra poco Franz
  21. leopnd

    IMSA - Long Beach

    BUBBA Burger Sports Car Grand Prix At Long Beach Domenica, 14.04.2019. 02:05h https://sportscarchampionship.imsa.com
  22. Andrea Gardenal

    Ed Carpenter

    Everett Edward Carpenter jr, nato a Paris, Illinois, Stati Uniti, il 3 Marzo 1981 Team: Ed Carpenter Racing
  23. Andrea Gardenal

    Charlie Kimball

    Charlie Kimball, nato a Chertsey, Surrey, Gran Bretagna, il 20 Febbraio 1985 Team: Chip Ganassi Racing
  24. leopnd

    NFL

    Che impresa signori! Qui ci sta il film senza problemi. Tom Brady il piu' grande di sempre! I New England Patriots, sotto per quasi tutto il match, pareggiano negli ultimi minuti dei tempi regolamentari (28-28) e poi si impongono al supplementare contro i Falcons di Atlanta: 34-28.
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