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Elio11

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messaggi inviate da Elio11

  1. Insolito inconveniente per Warwick: “Durante la seconda sessione di prove quando Warwick (che in quel momento aveva il secondo tempo) è passato davanti ai box della sua ex-squadra, la Toleman, due meccanici si sono abbassati i pantaloni e, voltandogli la schiena, gli hanno mostrato il deretano. Warwick che era collegato via radio con i box mentre ha realizzato il suo miglior tempo rideva. Ai box della Renault gli chiedevano che cosa avesse e lui ha risposto con una frase americana intraducibile che suona così all'incirca: «I meccanici Toleman mi hanno fatto vedere le loro mezze lune». Alla Renault non hanno capito nulla, ma in quel giro Derek ha ottenuto il suo miglior tempo: quando si dice la concentrazione ...  AS n. 13/1984, p.32

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  2. È un po' fuori tema, ma leggevo che il fratello minore di Raffaella Carrà, Renzo Pelloni, chiamato da Autosprint “Enzo”, era stato impegnato nelle corse kartistiche nei primi anni settanta e nel 1975 si apprestava a disputare una stagione in F.850 con una Tecno.

  3. Ho trovato un'altra fotografia "particolare" simile a un'altra inserita qualche mese fa. Stavolta, è tratta dal primo numero di "biRombo" del 1983. Quanto al gran premio non c'è scritto, io propendo per Imola, per via della vegetazione, del cric e della segnaletica sull'asfalto.

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  4. 18 ore fa, elvis ha scritto:

    Qui non siamo ai boxes di Monza, penserei piuttosto a Watkins Glen.

    È vero, non è Monza perché la struttura e i cartelloni erano ben diversi. Però, è proprio Watkins Glen. Stavo confrontando questa con un paio di altri scatti, uno del 1972 e l'altro del 1974, accorgendomi di una cosa, visto che i mattoni corrispondono: non si tratta propriamente dei box, almeno quelli chiusi come li intendiamo normalmente. Quelli veri avevano le luci al neon pendenti dal soffitto ed erano chiusi e in penombra.

    Quindi, la BRM lì portò quei telai citati, tranne il n.10. Per non andare troppo fuori discussione, visto che la pagina è dedicata alla BRM P160E, inserisco le due fotografie nella discussione "Watkins Glen", se esiste, altrimenti in "Foto d'epoca".

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  5. Il 14/5/2020 at 18:17 , Dominic Barao ha scritto:

    Monza: 160 E ?

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    Sì, dovrebbero essere i telai 7, 9, e 10. Al GP di Monza del 1973 arrivarono nella versione definita "E" dai giornalisti del settore, e lo stesso vale anche per il telaio di riserva n.5.

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  6. Speravo che Mbappé segnasse e divenisse protagonista nonostante il mio desiderio di vedere perdere la Francia, e desideravo che Messi si consacrasse e l'Argentina vincesse. Beh, asserisco di essere stato accontentato oltremodo. È stata una partita che verrà decantata nei decenni a seguire, e ci mancherebbe, oggi vissuta con tanto trasporto.

    Prima dell'inizio, pensavo che la Francia potesse spuntarla abbastanza facilmente per quello che aveva dimostrato "da squadra" negli incontri precedenti, invece è rimasta, prima ancora che ingabbiata, stordita e spaesata. Aveva avuto un approccio troppo "molle", similmente a quanto visto contro il Marocco, ma lì, al contrario, si era palesata strategicamente sorniona. Qui, forse, davvero ha pesato la condizione fisica dovuta allo stato influenzale di cui si è parlato. L'Argentina ha giocato stranamente in assoluta scioltezza, ma ha pagato cara la mancanza di adeguati ricambi, soprattutto in difesa. A proposito di questo reparto, il punto debole della squadra, a parte l'encomiabile Molina che oggi si è sacrificato nella fase difensiva, ci sarebbe da ammettere che l'arbitro sia stato benevolo a favore di qualche centrale sudamericano, nonostante i rigori concessi. Poi, la stanchezza, e il rilassamento, sono sopraggiunti proprio nel momento in cui la Francia sembrava totalmente spuntata e in balia degli eventi, priva dei suoi riferimenti abituali (Giroud, Dembelé, T.Hernandez e da ultimo Griezmann, il vero collante). Qui, il merito sarà pure della spinta psicologica del rigore ottenuto e della bravura di un fuoriclasse, ma non bisogna sottovalutare la lettura data da Deschamps, perché alla fine, per quanto possiamo da casa essere in disaccordo con le loro scelte, sono gli allenatori che hanno le competenze per fare bene il proprio lavoro. Poi, è successo di tutto, un vero spasso per chi stava seguendo in modo disinteressato. La Francia per ciò che ha fatto vedere dall'ottantesimo in poi, non avrebbe meritato di perdere, anzi.

    Per quanto Messi da qualche stagione non sia più quello di una volta, per quanto come persona appaia scostante e in una certa misura sgradevole in certi atteggiamenti, in questo Mondiale ha davvero compiuto un'impresa degna di Maradona. Ha compiuto giocate non fine a sé stesse, ha messo a referto segnature decisive e di numero consistente, ha elargito assists, è stata una presenza continua e incessante in tutti i momenti chiave, psicologicamente parlando, e c'è sempre stato lui a risolvere le situazioni intricate, fatta eccezione per il rigore sbagliato contro la Polonia.

    Poi, un paio di altre cose:

    1) il Pallone d'Oro sarà diventato quello che è, ma assegnarlo prima di un Mondiale, e vedendo cosa hanno combinato quei due in tutte queste partite, pare proprio senza senso ...  magari sono cambiate le regole e scrivo una sciocchezza;

    2) il premio di migliore portiere l'avrei assegnato a Livaković o a Bounou, comunque non a un portiere che non è stato impeccabile in molte di queste sette partite;

    2) per fortuna o per sfortuna, non avremmo mai il piacere di sapere come si sarebbe svolta un'eventuale telecronaca di Adani  nelle vesti di commentatore tecnico in questa finale ... resterà per sempre confinato al campo dell'immaginazione. :asd:

  7. Nel giugno del 1982,  dopo la gara di Detroit, complice un viaggio di Ecclestone a Mosca, iniziarono a circolare delle voci su un gran premio sovietico da disputare in quella città, da calendarizzare già per l'estate successiva, e visto che questa curiosa sede destava un certo scalpore per la situazione socio-politico dell'epoca, Rombo lanciò una provocazione: un gran premio a Roma, o meglio il "Magnum Praemium Romae", proponendo, addirittura, un possibile tracciato (che non inserisco). Tutto quanto veniva pubblicato nel n.24/'82. Scherzo del destino, l'idea di fare un GP a Roma venne in mente a qualcuno qualche mese più tardi, però questa è un'altra storia. L'iniziativa “leggera” di Rombo era corredata da una simpaticissima immagine caricaturale. Ci sono idee davvero geniali: i politici di allora in alto a destra con i nomi latinizzati, vale a dire i vari Pertini, Spadolini, Craxi, Andreotti e altri; sotto la chiamata a raccolta dei piloti italiani di allora (anche Cheever era considerato tale) con tanto di mimica del Ventennio (notare De Cesaris, l'unico a non fare la linguaccia); il barbaro Chapman con cocchio Lotus 88; le accuse di Piccinini, lanciate da un Colosseo tramutato in box, all'incendiario Pironi ("Imola '82"); Lauda e Watson sulla "Karbonium Kombustum", cioè le McLaren in fibra composita di carbonio; la "Petroleum Mesopotamicus" di Bin Laden del vichingo Rosberg, squalificato per peso non regolamentare in Brasile, l'esoso Ecclestone/Poppea intento già da una decina di anni nell'attività di spremere gli organizzatori; il duo Renault arrosto (la Renault, al tempo del gran premio di Detroit, perdeva posizioni a vista d'occhio nella classifica costruttori); il nostro Poltronieri in basso a sinistra; la perla “Duxpurpureus” (Ducarouge), adescato in quei mesi dalla Lotus e pronto a lasciare l'Alfa, con Chiti nelle vesti di Giulio Cesare in punto di morte; e infine il cartello "Via Balestre Via! Via!", un invito ad andarsene con chiara allusione agli scontri di allora.

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  8. Comunque vada, tutte e quattro, per motivi diversi, meritano davvero.

    Tre fra quelle per cui simpatizzavo sono arrivate quasi alla fine, segno che @Pep92 è, ora, più bravo di me a fare quel tipo di pronostici. :asd:

    Le squadre maghrebine e quelle del Medio-Oriente hanno finalmente abbinato all'abilità tecnica di base dei loro singoli, l'intelligenza tattica, la capacità di eseguire a dovere certi movimenti collettivi e lo spirito di sacrificio che non hanno mai posseduto. Il Marocco si muove come un orologio. In questo, il Camerun e le altre squadre dell'Africa centrale (e meridionale), nonostante passino i decenni, appaiono ancora carenti, e sembra che siano rimaste ancora agli anni Novanta.

    A proposito di Croazia, Kovačić è stato davvero stellare contro il Brasile. Riusciva sempre a districarsi in modo encomiabile e quello che impreziosisce il tutto è che lo abbia fatto contro i brasiliani. Non ho mai visto una partita così da parte sua, mi ha sorpreso.

     
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  9. Keke Rosberg ha giocato un bello scherzo da «prete» a Marco Piccinini. Monsignore stava aspettando di portare Alboreto e Johansson, con rispettive signore a una conferenza stampa organizzata dalla Marlboro per la stampa brasiliana. Mentre i piloti aspettavano all'interno di una berlina il d.s., impegnato in una telefonata, è arrivato Keke che è salito al volante, ha detto ai ferraristi che era anche lui un invitato, ha messo in moto ed è partito verso Rio. Il finlandese, con i suoi meravigliati compagni di viaggio, ha girato più di mezz'ora per le strade, dicendo che non ricordava la strada. E alla fine, stufatosi dello scherzo, ha fatto ritorno all'Hotel Intercontinental. Arrivato lì, ha fatto scendere Alboreto, Johansson e le rispettive signore, ha chiuso la macchina e ha nascosto le chiavi. Il tutto di fronte alla faccia livida di Piccinini, che non ha certo gradito lo scherzo, non fosse altro perché il ritardo nei riguardi dei giornalisti brasiliani aveva già superato il livello di guardia ...

    Eugenio ZigliottoPicci ... nerie, «Rombo», Anno VI, 1986, 13, p. 30

  10. Un anno prima ...

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    The young man has always been neat. You know that sort of thing: well-groomed, properly after-shaved, handsome in a regolar sort of way, rugged and sensitive, physical and spiritual, the kind of boy mums want for son-in-law. With that goes a kind of innocence, and a thumbnail sketch would conclude he'd never be a world-beater. Ligier, McLaren, Theodore, Ensign: no puffs of blue smoke. Hockenheim altered much of his image.

    On the edge of the pit-wall, in a blue-striped T-shirt, one of the fifty or so cogs of the Scuderia's inner family. He leans on the concrete, his eyes closed, his hands joined in silent prayer. He doesn't even dare look up as Tambay's Ferrari glides across the finish line and Patrick, in his cockpit and long before the actual finish line, raises both hands in air.

    In the Ferrari pits, where the excitement is peculiarly muted, Forghieri is quickly surrounded by the avid Italian press. “No problems,” says the Ingegnere “it was a good race, it is a good result for us”. And how did he rate Patrick's performance in the car? “I don't think he made even a tenth of a mistake at any time during the race. A race of great regularity”. Then came the obvious question: considering the tragedy that had befallen Didier Pironi (and the outlook that Sunday afternoon was much darker than it is today), did the Ferrari win have a special meaning for him and for the team? Forghieri's dark eyes lowered briefly. “Of course,” he said instantly. “You will understand that”.

    As Patrick was to say a half-hour later: “Sure I was nervous before the race. Everyone was nervous. More nervous than usual. I did the first twenty-five laps thinking about my two chums, about Gilles and Didier. I mean, I was thinking about them non stop”. How not? One might ask. If life can be called nasty, brutal and short, so can the description of Tambay's recent career: in, when his friend of four-wheeling up mountain-slopes, Gilles Villeneuve, is killed at Zolder; he wins his first ever race, after fifty-three attempts, when his team-mate Didier Pironi is undergoing a critical operation in a Heidelberg hospital.

    The last two months must have looked to Patrick as though a bolt from the blue had been indefinitely extended; lightning hadn't just struck, it was continuing to run through his life, as though liquid. After all, in a way, this is Tambay's third career. One, with McLaren, ended with unsuccess, with hard words, hard times. The man doesn't like enclosed spaces, human chessgames. He gave up tennis, which he played obligingly and cavalierly, with much style and little result, in favour of golf, sailing, climbing, the wide open spaces: “I don't like to feel confined by the court,” he once explained. So it was with the McLaren-Marlboro motor home, with Edward Everett Mayer on his back.

    Which is why the move up to Ferrari was so pleasurable for him. The night of his satisfying third behind Lauda and Pironi at Brands, he gave yet another version of why the old man's magic still works at Maranello. The Commendatore's talents, said Patrick, might be sheer common sense; it had also to be admitted that he was shrewd in business and politics; it was undeniable that he was consumed by a passion for racing which rubbed off on everyone around him (or as his team-mate Pironi put it to me a fortnight ago, “Ferrari taught me that a single-minded passion is not just selfish, but can also be noble”); but above all, Tambay said “It is sheer humanity, it is the personal nature of one's relations with the man, it is the way he looks at you and talks to you”.

    The move to Ferrari had come after Patrick called a halt to his Formula One racing a second time, when it had barely re-started: at Kyalami, when I can remember him well sitting on the dingy steps of the control tower while we worked out how he would announce that his disgust with the politics of the sport were driving him definitely out of the sport. Disgust with what? “ With the fact that drivers aren't taken as people and their needs are not understood”, he had said. Well, up on the podium, he looked strangely ill-at-ease. It either wasn't his bag or he just didn't have enough practice; or it didn't mean that much to him or his mind was elsewhere. But, of course, the man had been altered by his first victory: “After four races, I think I'm much more highly motivated. I have a lot more determination, and I've applied myself carefully. After all, success comes from confidence”. Quite true. And what is the sweet smell of success? “You ask me if I feel good about winning the race? I can tell you it is a very visceral feeling, success.”

    Was it really a piece of cake? Patrick was calm and logical. First, he indulged in the usual driver tribute to the team effort which makes a win possible. “It's not an individual who wins,” he said “it's a team. It's what you can do for them and what they can do for you”. It all sounded a bit as though a down-hill skier were saying that the man who made his skis was the real winner of the race; or Miss America saying it was the plastic surgeon who gave her her beauty. Then he went on to explain: “I think today is a reward for my friends, as much as for me. Don't ask me why. I just felt it that way. I don't think of it as, hey, I won a grand prix. I think of it in terms of the people who are close to me: my father, my wife, my friends. I've waited fifty-two races to get here. But in the past, I think I was without technological and psychological backup. Maybe because of pressures inside me, I didn't get the results I thought I deserved: as at Monza or at the British GP last year (he wound up the season with a single point). I made mistakes while I was leading Lafitte: I say, because I wasn't backed up psychologically.”

    And the race itself? “I had no problems, technically. We picked the right compound (it was a B) and the car was beautifully balanced. It was very good under braking and the engine was faithful. At the beginning, I tried not to do too much and save my tyres, but I soon discovered that I was much better under braking than Arnoux; I also had better pickup coming out of the corners. I passed both Renaults and I knew there was no way I was going to catch Piquet. So I just waited. Hoping something would go wrong or they'd cock up the pit-stop. So I just set a pace. Then, Piquet had his trouble with whoever-it-was (Salazar) and I thought to myself, Patrick be super-careful with the back-markers. I had plenty of time to think, and at the end, I could run down my revs from 11,5 to 10,5 or less.”

    Any problems? “Yes, they kept putting up this pit-board that said 'okay, okay'. And I thought, I know I'm okay, okay. But knowing you're okay okay ... well, it's not the usual thing. But still, I had a feeling it was my day. All the little things meshed together. The driver is just the man who puts it together ...”

    His intention? “To keep Didier's capital, his points, intact to the end of the season. At this moment, next year is no worry.” And small wonder, since he has already signed. A comeback from a young man who seems all surface but who stands on his own deeper ground. His world may have been changed, but Patrick has not. The alterations are within.

    Keith Bostford, “Tambay, De Angelis: two insiders make it inside", «Grand Prix International», Vol. IV, n.54, 1982, pp. 12-17.

    Il riferimento a de Angelis, nel titolo dell'articolo, si giustifica in base alla considerazione che nello stesso numero della rivista venne data trattazione anche del gran premio austriaco: con un altro approfondimento, il medesimo autore, ragionò circa gli episodi relativi alla Stiria.

     

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  11. Un italiano su una moto italiana, che bellissima soddisfazione!! Bagnaia è stato bravissimo, era un'impresa davvero ardua. Per come andava profilandosi la classifica a metà campionato, non nutrivo alcuna aspettativa di questo genere. Deve essere un ragazzo dotato di robusta tempra, perché il morale credo davvero fosse sotto i tacchi dopo le batoste e le delusioni di Montmelò e della Sassonia. Per il futuro, vedo i nostri portabandiera abbastanza quotati per continuare a fare bene. Bagnaia e Bastianini, non scordando altri che hanno mostrato, anche se a sprazzi, di avere del talento da coltivare con dedizione, e l'esperienza li renderà più smaliziati e maturi, penso a Bezzecchi e a Marini. Speriamo che anche Morbidelli si possa riprendere, ha avuto un brutto calo repentino.

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  12. Inseriamo qualcosa di un altro dottore, il musicoterapista Goran Kuzminac, di origine serba ma cresciuto lontano dalla Jugoslavia, fra il Trentino e l'Austria. Mi sono sempre chiesto se il suo cognome possa essere stato trasposto in modo errato nella traslitterazione dal cirillico. Il fatto è che, di solito, quella "c" finale, di solito dovrebbe essere la nostrana "c" di "cielo", quindi andrebbe scritta "č" e pronunciata "/tʃ/", invece di "k". Bisognerebbe chiedere a Leo. Comunque, molti anni fa, in larga parte per carenza di mezzi e un po' per negligenza, non si badava tanto a queste pignolerie: in tutti i vinili, CD, e cassette si trova impresso "Kuzminac". Goran, dalla voce melodica e calda, ebbe l'onore di essere, in pratica, l'artista di punta dell'etichetta Una sors coniunxit, nata con l'intento di dare risalto a giovani sconosciuti cantautori della fine anni degli settanta. I suoi due primi album, quello del 1980, arrangiato da Shapiro, e l'altro del 1981, arrangiato stavolta dal direttore d'orchestra Del Newman (le musiche sono rigorosamente di Kuzminac), rappresentano in pratica i due quinti dell'intera produzione dei 33 giri di quella effimera casa discografica indipendente. Altri noti progetti di quell'etichetta indipendente di Micocci furono “L' Eliogabalo” e il minidisco di esordio di Kunstler. Dopo un lungo periodo di pausa, ritornò al cantautorato alla fine degli anni ottanta, con un altro bel lavoro "Contrabbandieri di musica", del 1987. Da allora, un altro silenzio, interrotto nel 1996, e, a partire dal quell'anno, è divenuto più continuo nel pubblicare i suoi inediti. Su Youtube, fino all'anno della sua dipartita, il 2018, aveva il vezzo di rilasciare qualcosa.

    "Stella del nord" era la seconda traccia del suo secondo lavoro. Una curiosità è, che nella scaletta ufficiale del vinile, essa forma un tutt'uno con "Prove di volo", un brano strumentale che dà il titolo all'intero LP, tanto da essere segnalata una singola durata complessiva di cinque minuti e mezzo, valevole per entrambi i pezzi. "Prove di volo", musicalmente, non sembra avere nulla ha a che fare con la melodia e gli arrangiamenti del brano successivo, tranne quei pochi secondi in cui, morendo una, si origina l'altra. Sotto, inserisco una esibizione dal vivo risalente al 1982, nella quale compare in una breve apparizione un giovanissimo Mario Castelnuovo, allora agli esordi. In ultimo, la versione de “Il Barone Rosso”, tratta da “Contrabbandieri di musica”. Il primo video è, diciamo, particolare:

     

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  13. I californiani “Sixtieth Parallel”, di Long Beach, sono stati attivi dalla metà dagli anni Ottanta fino ai primi anni Novanta, e in cascina possono vantare un solo album, “Into the bliss”, del 1988. Il gruppo si sciolse subito dopo la pubblicazione dell'album, ma, a dispetto di quanto spesso accade, i tre componenti rimasero buoni amici tanto da mandare avanti un progetto per un nuovo album che avrebbe dovuto trovare compimento attorno al 1993. Registrarono alcuni pezzi ma non trovarono mai un produttore e un'etichetta. Alcuni di questi brani sono rimasti tuttora inediti, assieme ad altre canzoni dell'epoca precedente a "Into the bliss". Tuttora, comunque, sono in contatto fra loro e si riuniscono per fare qualche spettacolo per i pochi rimasti affezionati, nonostante le difficoltà logistiche (il bassista vive in Danimarca da quasi trent'anni). Gli altri due, che già venivano da una precedente esperienza assieme, hanno, in questi anni, formato un altro gruppo, limitandosi a eseguire delle cover di vari musicisti della scena "alternativa" del loro decennio. Uno di questi, Damien Murray, su discogs ammette che il gruppo abbia subito una certa influenza da parte di artisti come gli Echo & The Bunnymen o i Chameleons o i primi U2, e, infatti, qua e là, si sente una certa atmosfera che rimanda a "The Unforgettable Fire" (soprattutto, nella traccia di apertura "Over and over") e a "The Joshua Tree", ma anche a quegli album degli U2, diciamo, "lavorati in simbiosi" assieme ai Comsat. Oserei dire che alcune sonorità rimandano anche a quelle dei The Church, ma non credo possa trattarsi di un influsso, visto che questi rimasero (e rimangono?) confinati entro gli angusti limiti dell'Australia. Comunque, tutto può essere, dal momento che sempre di Pacifico parliamo. Più che altro, credo si tratti di scelte in circolo e in voga all'epoca. Quando mi riferisco ai The Church penso soprattutto a "Heyday" del 1985. Alcune demo, per esempio quella di "Into the bliss", che pare appartenere a un periodo precedente al 1988, lascia intendere abbastanza come ci sia qualcosa del modo di suonare dei The Comsat Angels dei tempi della Polydor (1980-1982). Questa demo non è compresa nell'album, la potete trovare nel canale Youtube dedicato al gruppo, mentre altre canzoni sono nel canale "DM", uno dei tre musicisti. Comunque, il loro sforzo è notevole e i ventotto minuti dell'intero album scorrono piacevolmente.

     

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