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06 - Gran Premio d'Italia 1935


leopnd

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In un'epoca, gli inizi del '900, in cui il motorismo era tutto da inventare, regole comprese, era tutto un brulicare di invenzioni, di innovazioni, di scoperte che oggi costituiscono il linguaggio corrente della tecnologia automobilistica. Una verve progettuale, quella di quegli anni pionieristici, libera dai budget striminziti per la ricerca, dalle regole del marketing e dalle logiche industriali, intrisa di tutto quel fascino epico che l'automobile, oggetto per pochi, ancora tutto da scoprire, riusciva a suscitare.
Tra i progetti più sconcertanti che vennero alla luce in quell'ormai lontano passato ci fu la Monaco Trossi del 1935, una specie di aereo con le ruote e senza ali, innovativo nell'idea quanto sfortunato su strada e che purtroppo non ebbe mai l'opportunità di misurare il suo potenziale con le competizioni.

Il prologo alla nascita di questa originale vettura iniziò nel 1932 quando il progettista Augusto Monaco, aiutato da Enrico Nardi, iniziò la realizzazione di una "vetturetta" da corsa, la Monaco - Nardi Chichibio spinta da un bicilindrico da un litro di cilindrata e con raffreddamento ad aria. Si trattava di un propulsore piccolo ma molto competitivo che, con 65 CV, era più potente di ben 10 CV rispetto all'Alfa Romeo 1750, vettura all'epoca molto valida (vincitrice, in versione Gran Sport, anche di gare importanti come la Mille Miglia). Grazie a un peso poco superiore ad appena 300 kg, la Chichibio superava i 180 km/h e questo ne faceva un'ottima arrampicatrice per le corse in salita. I buoni risultati ottenuti furono la spinta decisiva all'estro di Augusto Monaco verso nuove realizzazioni, in particolare verso una vettura a trazione anteriore da Gran Premio (la massima formula dove dilagavano la Auto Union, le Alfa Romeo della Scuderia Ferrari, le Maserati, le Mercedes, le Bugatti) per la categoria fino a 750 chili di peso.

Grazie all'aiuto dell'ingegnere pilota Giulio Aymini e del Senatore Agnelli (nonno di Gianni, fondatore della FIAT), che fornì attrezzi e officine, Monaco poté dedicarsi alla nascita della nuova auto immettendovi il meglio della tecnologia disponibile all'epoca. Tuttavia, emersero da subito gravi problemi in sede di test, che scoraggiarono Agnelli al punto da decidere di abbandonare la partita. Senza perdersi d'animo, Monaco trovò un nuovo appoggio nel Conte Carlo Felice Trossi, nobile gentleman-driver piemontese di chiara fama, che si lanciò con grande entusiasmo nel progetto mettendo a disposizione i locali della sua stessa dimora da adibire ad officina, il Castello di Gaglianico alle porte di Biella. Fu così, peraltro, che la vettura prese il nome dei suoi due "padri": Monaco-Trossi. Ad essi si aggiunse un amico dello stesso Trossi, il talentuoso designer Mario Revelli di Beaumont, che si occupò di dare la giusta forma alle idee.

La caratteristica che più colpisce oggi, ma che all'epoca non rappresentava un'innovazione assoluta essendo molto utilizzata, almeno nel settore aeronautico, era certamente la presenza del motore radiale. Questo tipo di propulsore consisteva nella disposizione dei cilindri secondo linee radiali. Alla base si partiva da un pistone connesso direttamente, attraverso una grande biella, detta "biella madre", all'albero motore. Potevano quindi essere aggiunti, a seconda delle esigenze, altri cilindri agganciati con biellette, fino a formare una struttura a "stella".
Utilizzato a lungo in aviazione fino all'avvento del motore a reazione, generava ugualmente una serie di vantaggi come di svantaggi: tra i lati positivi si segnalava innanzitutto una certa semplicità costruttiva. Secondariamente, la rottura di una biella non comportava l'avaria dell'intero sistema, ma solo del cilindro interessato. D'altro canto la grande superficie creava una sezione frontale nemica dell'efficienza aerodinamica; per l'utilizzo della sovralimentazione, infine, si rendeva solitamente necessario utilizzare un dispositivo per ogni cilindro, complicando notevolmente l'architettura.

L'unità della Monaco Trossi era costituita da una stella a otto blocchi sistemata fuori bordo oltre la carreggiata anteriore, ognuno con due cilindri e due pistoni con camere di scoppio solidali, provvista di sovralimentazione con due piccoli compressori a palette forniti dalla Zoller (sistemati dietro il motore, all'interno della carrozzeria) e tarati per lavorare a basso carico di pressione. L'impianto di scarico, invece, si trovava nella parte opposta, di fronte al motore, con una disposizione del tipo "4 in 1": 4 voluminose uscite di scarico confluivano in un lungo tubo che passava sotto l'abitacolo e percorreva tutto il veicolo per trovare sfogo poi in coda.
La cilindrata totale di questo originale 16 cilindri era di 3.982 cc. La potenza massima sprigionata era pari a 250 cavalli a 6.000 giri. La trasmissione (trazione anteriore) era costituita da un sistema ad alberi che dal cambio andava verso la frizione per poi fare ritorno al cambio. Il telaio della Monaco Trossi consisteva in una struttura formata da tubi di manganese-molibdeno con quelli della parte anteriore e posteriore di diametro ulteriormente maggiorato. L'impianto frenante era totalmente idraulico sulle quattro ruote, queste ultime fornite di pneumatici da 31" anteriormente e 27" posteriormente.

A prima vista, sembrava di avere di fronte nientemeno che un aereo al quale erano state tolte le ali. La sua carrozzeria a sigaro, che andava assottigliandosi verso la coda, e il particolare motore anteriore radiale riflettevano con anche troppa evidenza un complesso studio progettuale ridondante di influssi aeronautici. Ma, come anzidetto, poiché ben poche erano le restrizioni imposte dai regolamenti, tutto poteva accadere in sede di progettazione di un'auto da corsa.

La Monaco Trossi fu iscritta al Gran Premio di Monza del 1935 per vetture monoposto da Grand Prix. La vettura prese parte ai test ufficiali quale coronamento di mesi di speculazioni e notizie frammentarie sulle sue caratteristiche. Al suo debutto grande fu la sorpresa negli astanti, rimasti colpiti da quelle forme e da quel motore mai visti prima nell'interpretazione del concetto di automobile.
Purtroppo, però, fu un vero disastro. A causa di una sfavorevolissima ripartizione delle masse (75% sull'anteriore, 25% sul posteriore), l'auto accusava fenomeni plateali di sottosterzo, fino a risultare troppo difficile da condurre, finanche pericolosa. A ciò si aggiunsero complicazioni in ordine al raffreddamento: il motore generava enorme calore che non riusciva a trovare adeguata via di sfogo e che causava seri danni agli organi meccanici. Con queste premesse, l'auto non fu schierata alla partenza, non potendo così mai avere l'opportunità di misurarsi con le avversarie, visto che il progetto venne definitivamente abbandonato.

Venne la guerra e portò con sé morte e distruzione, mandando in rovina ogni attività umana che non fosse legata al conflitto. Finalmente le ostilità cessarono, ma ormai i tempi erano cambiati. L'originale ma superata vettura rimase come una sorta di cimelio nelle mani del Conte Trossi e, dopo la sua scomparsa, della vedova, la Contessa Lisetta.
Cosciente del fatto che quella ardita creazione avesse nel frattempo maturato una sua fondamentale importanza storica, la nobilodonna donò la macchina al Museo dell'Automobile Carlo Biscaretti di Ruffia di Torino, dove oggi questo gioiello è esposto accanto alla vettura che la ispirò, la Monaco-Nardi Chichibio.

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  • 8 months later...
3 ore fa, sundance76 ha scritto:

Nonostante le chicanes, la versione '35 del circuito era infinitamente migliore dell'obbrobrio '34.

Posso capire il tuo punto di vista. Io invece trovo interessante e piacevole anche quello che tu definisci "obbrobrio del '34" (cambiava pure il solito senso di marcia!). Mi hanno sempre affascinato tutte queste varianti al tracciato tradizionale monzese. Poi le chicanes stesse, pure in altri circuiti, a me sono sempre piaciute, considerate come un qualsiasi altro tratto del percorso. E servivano, oltre che a rallentare le vetture, anche per favorire i sorpassi creando quindi spettacolo per il pubblico. Sarà poi anche perchè tutto quello che riguarda la storia di questo circuito a me risulta, soprattutto adesso, estremamente emozionante... 

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46 minuti fa, elvis ha scritto:

Posso capire il tuo punto di vista. Io invece trovo interessante e piacevole anche quello che tu definisci "obbrobrio del '34" (cambiava pure il solito senso di marcia!). Mi hanno sempre affascinato tutte queste varianti al tracciato tradizionale monzese. Poi le chicanes stesse, pure in altri circuiti, a me sono sempre piaciute, considerate come un qualsiasi altro tratto del percorso. E servivano, oltre che a rallentare le vetture, anche per favorire i sorpassi creando quindi spettacolo per il pubblico. Sarà poi anche perchè tutto quello che riguarda la storia di questo circuito a me risulta, soprattutto adesso, estremamente emozionante... 

Vada per le chicanes, ma il tracciato '34 era la negazione di Monza. Le medie orarie erano poco superiori a Montecarlo.

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3 ore fa, sundance76 ha scritto:

Vada per le chicanes, ma il tracciato '34 era la negazione di Monza. Le medie orarie erano poco superiori a Montecarlo.

Hai perfettamente ragione ma bisogna tener conto che per l'autodromo non era un periodo facile dopo i tragici avvenimenti dell'anno precedente. Probabilmente questo tracciato fu una scelta obbligata da parte degli organizzatori per ridurre drasticamente le velocità medie sul giro, evitando così per il momento rischi ulteriori.   

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  • 4 years later...

I CAMPIONI CHE SCRIVONO

HANS STUCK RACCONTA LA SUA VITTORIA AL GRAN PREMIO D'ITALIA DEL 1935

 

La prova decisiva, il Gran Premio del 1935, è ormai passata, e nessuno dei piloti e dei meccanici che vi hanno partecipato potranno dimenticare quelle tre ore di corsa sulla pista di Monza. Meno di tutti, poi, io stesso che nella mia lunga carriera di pilota non ho mai avuto una battaglia così duramente combattuta, che ha richiesto tanti sforzi estremi da macchine e conduttori, come il Gran Premio d’Italia.

A noi era già chiaro molto tempo prima della gara che i piloti tedeschi avrebbero dovuto profondere ogni energia e impegnare al massimo le loro macchine se volevano ottenere la vittoria nella “tana del leone”.

Si inizia bene

Io stesso avevo preso grandi precauzioni per questo confronto. La mia Auto Union mi aveva pienamente soddisfatto durante gli allenamenti: teneva in maniera eccellente le difficilissime curve e seguiva con docilità la più lieve pressione dei freni. Stavolta avrebbe dovuto imporsi, potendo contare su un briciolo di fortuna. E la fortuna l’ho avuta già in partenza: con l’esclusione del conte Trossi che non aveva potuto ottenere in tempo la sua macchina a motore di aviazione, ho potuto avanzare dall’originaria posizione di terza fila alla seconda, dove ero preceduto soltanto dall’amico Caracciola. Di lui però sapevo esattamente che sarebbe partito così lesto da farci superare entrambi i passaggi delle prime chicanes con un chiaro vantaggio poiché in quei punti vi sarebbe stato certamente un ingorgo di macchine. E anche questo andò magnificamente. Presto ci siamo liberati dal gruppo e potevamo disporre di pista libera, almeno durante il primo giro.

Risparmiare i freni!

Adesso avevamo davanti a noi i 73 giri della pista di Monza e i freni hanno dovuto lavorare per quasi quattro ore in circa 700 rallentamenti e cambi di marcia. Qui c’era una sola cosa da fare. Correre con la testa sul collo, secondo tutte le regole dell’arte, rinunciare ai record sul giro per risparmiare non solo i freni ma tutta la vettura. Lo svolgimento della corsa ha dimostrato poi quanto l’esito dipendesse dalla resistenza dei freni.

Dei miei quindici avversari soltanto quattro sono giunti con me al traguardo. La maggior parte dei ritiri, anche tra i miei compagni tedeschi, hanno avuto la loro causa nei disturbi ai freni o nei cambi di velocità. Ho evitato quindi durante tutta la corsa ogni colpo di freno troppo energico a meno che non fosse assolutamente necessario e preferendo rinunciare a qualche decimo di secondo nei passaggi delle chicanes rallentando in anticipo.

Le grandi possibilità di accelerazione della mia Auto Union mi permettevano di riguadagnare subito dopo queste minime perdite. È stato anche in tal modo che alla fine della corsa ero ancora in grado di rispondere a un minaccioso attacco di Nuvolari che faceva il possibile per ripetere la sua grande vittoria del Nurburgring.

Le chicanes, che erano state messe sulla pista per rendere meno veloce il pericoloso tracciato che induceva alla velocità, si sono dimostrate nello svolgimento della gara vere chicanes nel senso assoluto della parola.

È infatti spesso accaduto che cumuli di paglia venissero asportati da piloti forsennati e che gli inseguitori si lanciassero a tutto gas sul passaggio prima ostacolato.

Quando però dopo circa tre minuti (la durata di un giro col layout particolare dell’edizione ’35, ndt) si tornava in quel punto, la chicane era di nuovo stata ripristinata dai commissari. Al 13° giro ero dietro a Etancelin che pilotava la nuovissima Maserati ad assi bilanciati: ho cercato di superarlo quando mi sono accorto che a poca distanza di me, per una brusca frenata, egli è stato lanciato fuori dalla pista fino a scavalcare un muretto e capovolgersi. La sua macchina aveva spazzato via intere balle di paglia e pezzi di legname.

Con felice presenza di spirito ho sfruttato subito la situazione per lanciarmi a tutta velocità attraverso il passaggio. Quando sono ritornato nello stesso punto dopo un giro, la chicane era stata di nuovo ripristinata e il passaggio nuovamente ostacolato.

E qui, per l’unica volta, ho fatto grande fatica per superare la parete di paglia senza toccarla, sorpreso dalla rapida ricostruzione dell’ostacolo.

Quante cose possono accadere!

Pochi giri dopo con paura ho visto la macchina del mio compagno di scuderia Varzi arrestata sulla pista, e dei vigili del fuoco intenti a cospargerla di getti d’acqua. Temevo già che qualcosa di peggio fosse capitato e sono stato felice di apprendere in seguito, durante il rifornimento, che era stata soltanto la vernice della cappa del motore di Varzi ad infiammarsi per l’eccessivo riscaldamento del tubo di scarico. Quante cose possono accadere!

Durante i 25 durissimi giri che mi hanno portato in testa a metà gara ho spinto al massimo per riservarmi tempo sufficiente per il rifornimento e il cambio di pneumatici. Più tardi dovetti convincermi che tutto ciò era superfluo perché i miei meccanici hanno lavorato così bene ai box da consentirmi di ripartire dopo soli 37 secondi. Con questo tempo record nel rifornimento e nel cambio gomme ho potuto guadagnare un buon mezzo minuto sui miei avversari.

Durante la seconda metà gara mi è sembrato di essere solo in pista. C’erano ancora pochi a lottare con me: alle spalle mi premeva Nuvolari; poi veniva il mio compagno di scuderia Rosemeyer e, lontane, l’Alfa Romeo di Marinoni e la Bugatti di Taruffi.

Su un segnale del mio direttore sportivo ho condotto gli ultimi giri di pista senza esagerare per non perdere la vittoria ormai sicura.

È stato bello il fatto capitatomi quando avevo già vinto, senza che lo sapessi. Invece della consueta bandiera a scacchi bianchi e neri, infatti, mi era stata sventolata una bandiera azzurra, per cui, non potendo comprendere il significato, ho proseguito a grande velocità per un altro giro, finché non è stata adoperata la bandiera giusta. Ma in quel momento ero così lanciato che non mi sono fermato nemmeno ai boxes e ho aggiunto un altro giro. Volevo essere sicuro, insomma.

(Articolo di Hans Stuck pubblicato in Svizzera su "Sport" di Zurigo, e in Italia su "Il Littoriale")

 

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