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Emerson Fittipaldi


leopnd

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19 ore fa, R18 ha scritto:

Se ci fosse qualcuno bravo col portoghese capace di tradurre quest'intervista sarebbe eccezionale.

 

ci sono i sottotitoli, magari con la traduzione che anche se non è perfetta si può capire qualcosa 

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  • 2 years later...

«Guarda per Wilson sento una cosa, qua, dentro di me: come mi piace quel ragazzo. Ma con 'Majo' è differente. C'è un collegamento, un filo che mi unisce a lui. Quando torna in Brasile, passiamo sempre varie ore assieme, parlando.»

Sulle labbra sottili di donna Maria Vojuechovskj, Emerson Fittipaldi è 'Majo', il figlio di sua figlia José, il nipote famoso, ma qualche volta distratto che non può progredire senza il suo aiuto. Donna Maria abita sola, in una piccola casa bianca dietro il terreno del quartiere del Bosco della Salute in San Paulo, di fianco a un albero di caffé ora in fiore, a una pianticella di 'goiaba' dipinta di bianco e ad una di limone che ha già perduto le spine. Polacca, di 72 anni, vedova di un ex ufficiale dello Zar, zappatore di trincea nella Prima guerra mondiale, ha emigrato dalla Lituania nel 1928, quando ebbe il presentimento di una seconda grande guerra. Il naso affilato, capelli castani pettinati all'indietro e una sottile rete di rughe che formano triangoli che vanno dalla fronte verso il naso e altre del mento verso la bocca, indossa poche volte la gonna, tranne quando va in chiesa a lavorare per aiutare i poveri. Per i pochi che conoscono i suoi rapporti col nipote, lei è la sua fata-madrina e il campione mondiale di Formula 1 non tralascia occasione di chiederle consigli.

«Io vado alle corse e guardo tutto. In Inghilterra la sua macchina era una bellezza. Un poco prima della corsa è venuto un altro pilota che ha scambiato uno strano sguardo con il meccanico che stava stringendo qualche vite. Ora, perché lo ha guardato in quel modo? Non sono certamente due innamorati che vanno a dormire assieme. C'è qualcosa che non va, ho pensato. Cominciò la corsa e sicuramente le marce erano truccate e Emerson è calato in sesta posizione. Allora ho innalzato preghiere a Nostra Signora della Penha. Guardavo il quadro della gara, chiudevo gli occhi, mi concentravo, li riaprivo, e Majo era quinto. Mi concentravo ancora, ripetevo la manovra e Majo era quarto.»

La concentrazione della nonna è stata valida sino al terzo posto, ma il nipote ha rifiutato di credere nella disonestà del meccanico. Sulla parte della sua camera vi sono un grande poster di Emerson Fittipaldi e una litografia del Cuore di Maria, del 1852, portata dalla Lituania. Sopra un mobile, fotografie di otto nipoti e del figlio morto di meningite trent'anni or sono. Mostrando quella di Emerson dice:

«Quando era piccino faceva delle vetturette in legno, ma ne diceva le marche sbagliando. Io correggevo dicendo 'E' Ford, bambino, con erre.» E Donna Maria ride, come un fanciullo che ha fatto una piccola marachella. I suoi piccoli occhi, protetti dagli occhiali, sono vivaci e curiosi. Lei stessa non riesce a parlare il portoghese a perfezione: i suoi erre suonano sempre come ere. Mostra un altro poster di Emerson e Wilson e dice: «Il Majo ha un problema; è uno stupido negli affari. Non riesce a capire quando gli fanno del male». Ed è forse per questo che Emerson cerca i suoi consigli.

«Sai perché non ha accetato di correre per Ferrari? Io gli ho detto: Tu continua con il Chapman, nella Ferrari non v'è nulla di buono. Ho avuto come un presentimento.»

Presentimento in quanto alla qualità della vettura?

«No, un presentimento nei riguardi di quel vecchio ranzinza».

Prima dele corse del nipote, donna Maria si riunisce con due sue amiche in un forte triangolo di spiritismo («No, non è macumba») al quale fu convertita per l'apparizione, nel sonno, dell'anima di Stefan, un suo antico innamorato. E così, nelle corse, Emerson può contare sull'aiuto di una équipe di santi forti e prestigiosi. In Austria è Santa Rita, in Belgio Nostra Signora de la Penha e a Monza donna Maria, per non correre rischi, si è concentrata nel Duomo di Milano.

Probabilmente, però, e donna Maria lo confessa, Emerson ha anche un aiuto più influente.

«Nell'ultima gara in Brasile gli si è rotta la sospensione della macchina. Quando ho visto quella polvere in aria mi sono precipitata. Emerson mi ha accolto sorridendo. Figlio, gli ho detto, come sei riuscito a dominare la vettura?»

«È stato Lui, ed ha indicato il cielo con un dito.»

 

______

AS n.48/1972 pagg.5,9. Intervista rilasciata al settimanale brasiliano 'VEJA'.

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  • 4 months later...

Questo editoriale a firma di Marcello Sabbatini, scritto all'indomani della seconda vittoria stagionale nel 1972, offre alla lettura alcuni passaggi interessanti.

[...] Quello che piace di Emerson è la sua simpatia umana. Perché lui, come Reuteman, come il fratello Wilson e lo stesso Carlos Pace che – lo avete visto tutti – è andato a sventolare entusiasta la bandiera gialla e verde sotto il podio di Nivelles, sono fatti della stessa pasta. Quella festa brasiliana in Belgio è un simbolo.

Faceva tenerezza quasi, osservare quel foltissimo gruppone di brasiliani che accompagnavano in tutto il G.P. l'irruente slalom della nera Lotus n.32 con lo stesso cha-cha-cha ritmato che i telespettatori di tutto il mondo ricordano, quando le folle impazzite esaltavano gli affondi di Pelè o le veroniche di Garrincha.

È il ritmo per il nuovo idolo che nasce, per la nouvelle vague dei piloti che appare all'orizzonte automobilistico. Anzi,  riappare. Perché è un soffio di emozione nuova per i giovani, lo è ritrovata per coloro che hanno ancora nel ricordo i campioni del volante dagli anni '30 ai '50. Allora lo sport dell'automobile non era ancora il feudo dei computers anglosassoni, quelli che hanno tutto razionalizzato e condito a suon di dollari e di sterline, mummificato nel tecnicismo che poco più nulla concede all'estro dell'improvvisazione agonistica, che riduce i contatti umani a freddi carnet programmati, a rapporti ipocriti nei singoli tornaconti, ad eufemismi di calcoli sin troppo interessati, dove la sincerità lascia troppo posto al gioco interessato senza più il fair play o le manifestazioni pur umanissime, il risentimento come l'amarezza, il dispetto come la rabbia. Il mondo dove la gioia diventa artefatta, calcolata, computerizzata. Sul podio quei campiioni non si bagnano più di champagne per il gusto quasi goliardico di un momento anche fanciullesco di esaltazione, ma perché c'è il public-relation che tiene conto della scritta sulla bottiglia che si agita, del cappellino con le scritte giuste sostituito al casco, degli autografi che è già preventivato concedere nel numero prefissato dal contratto pubblicitario.

Quando finì l'era dei campioni latini era la metà o poco più degli anni '50. Ritiratosi Fangio, scomparsi Castellotti, Musso, Behra, finirono – dopo gli anni ruggenti di Nuvolari e Ascari – anche gli anni d'oro della ritrovata verve agonistica del rilancio post-bellico. Vennero di moda i piloti costruttori, i self-made-men delle corse, gli operai del volante, molti dei quali trovarono in questo sport anche il riscatto sociale di una vita durissima. Ma senza l'esuberanza piacevole e anche sbarazzina tipica dell'emigrato di ceppo latino, ma invece con tutta la determinazione e la freddezza del «colono» angolosasssone. Il mondo delle corse era cambiato, come sapete, arrivando al tecnocraticismo in tutte le sue espressioni, senza più la carica che dovrebbe, per forza, mantenersi se si vuole dare credito al significato originario della parola sport, cioè «deporte», cioè svago.

Nel ricorrente ciclo delle vicende umane, anche lo sport dell'automobile, però, sta ritrovando questa perduta espressione; quella che sola può riumanizzarlo, ridandoci anche il piacere di una dimensione meno assoluta sul piano tecnico e più viscerale su quello umano. La dimensione delle cose anche gioiosamente improvvisate, pur nel rischio sempre immanente del dramma che questo tipo di agonismo implica.

Per arrivare a questo doveva avvicendarsi anche la generazione dei piloti, la razza intesa come nazionalità. Al freddo egocentrismo anglosassione, tanto meglio se torna a succedere l'esuberanza dei paesi cosidetti a ceppo latino. Tagliati fuori gli italiani, nel perenne controsenso della nostra esterofilia che piace tanto ai costruttori di casa (le famose campagne di Sabbatini a favore dei piloti italiani, volte a punzecchiare la Ferrari e l'Alfa Romeo: in particolare, quell'anno aveva un occhio di riguardo per Galli e nel mirino era entrata anche la Tecno ndr), ecco spuntare i campioni del terzo mondo del volante. Ritorna tutta la entusiasmante e coreografica esuberanza dei sud americani, dei quali il nuovo simbolo è proprio Emerson Fittipaldi, il ragazzo dal viso butterato dal vaiolo il cui padre decanta le gesta da quel podio oratorio dei mass-media moderni che è il microfono radiotelevisivo, mentre al suo box c'è una fresca fanciulla acqua e sapone, una moglie che non si ripete con la burocratica efficienza delle colleghe anglosassoni nel contargli i giri al suo cronometro, ma che ogni tanto sa anche andare a cinematografarsi il marito alla curva più difficile con curiosità da bambina. [...]

Se Emerson Fittipaldi vincerà il mondiale '72 potremo dire davvero che il mondo dell'automobilismo agonistico ha ritrovato la sua svolta; una svolta più umana. Dietro la curva troveremo certamente più entusiasmo e anche più piacere nel raccontare le gesta di questi piloti che pretendono di contare, come molti di loro ormai già fanno, le parole che ti elargiscono.

No, questo con Fittipaldi non succede. Perché, casomai, rimane con te, tu giornalista o tifoso, a parlare per un'ora e, poi, con l'accattivante sorriso che potrebbe benissimo procurargli una scrittura per un carosello, si scusa: «Oddio, adesso devo proprio andare, ho una riunione alla GPDA. È cominciata alle 11!». Ed erano le 12,30. Il rispetto per i colleghi aveva abdicato alla cortesia per l'interlocutore del momento.

AS n.16/1972 pagg. 8-9

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2 ore fa, Elio11 ha scritto:

Questo editoriale a firma di Marcello Sabbatini, scritto all'indomani della seconda vittoria stagionale nel 1972, offre alla lettura alcuni passaggi interessanti.

[...] Quello che piace di Emerson è la sua simpatia umana. Perché lui, come Reuteman, come il fratello Wilson e lo stesso Carlos Pace che – lo avete visto tutti – è andato a sventolare entusiasta la bandiera gialla e verde sotto il podio di Nivelles, sono fatti della stessa pasta. Quella festa brasiliana in Belgio è un simbolo.

Faceva tenerezza quasi, osservare quel foltissimo gruppone di brasiliani che accompagnavano in tutto il G.P. l'irruente slalom della nera Lotus n.32 con lo stesso cha-cha-cha ritmato che i telespettatori di tutto il mondo ricordano, quando le folle impazzite esaltavano gli affondi di Pelè o le veroniche di Garrincha.

È il ritmo per il nuovo idolo che nasce, per la nouvelle vague dei piloti che appare all'orizzonte automobilistico. Anzi,  riappare. Perché è un soffio di emozione nuova per i giovani, lo è ritrovata per coloro che hanno ancora nel ricordo i campioni del volante dagli anni '30 ai '50. Allora lo sport dell'automobile non era ancora il feudo dei computers anglosassoni, quelli che hanno tutto razionalizzato e condito a suon di dollari e di sterline, mummificato nel tecnicismo che poco più nulla concede all'estro dell'improvvisazione agonistica, che riduce i contatti umani a freddi carnet programmati, a rapporti ipocriti nei singoli tornaconti, ad eufemismi di calcoli sin troppo interessati, dove la sincerità lascia troppo posto al gioco interessato senza più il fair play o le manifestazioni pur umanissime, il risentimento come l'amarezza, il dispetto come la rabbia. Il mondo dove la gioia diventa artefatta, calcolata, computerizzata. Sul podio quei campiioni non si bagnano più di champagne per il gusto quasi goliardico di un momento anche fanciullesco di esaltazione, ma perché c'è il public-relation che tiene conto della scritta sulla bottiglia che si agita, del cappellino con le scritte giuste sostituito al casco, degli autografi che è già preventivato concedere nel numero prefissato dal contratto pubblicitario.

Quando finì l'era dei campioni latini era la metà o poco più degli anni '50. Ritiratosi Fangio, scomparsi Castellotti, Musso, Behra, finirono – dopo gli anni ruggenti di Nuvolari e Ascari – anche gli anni d'oro della ritrovata verve agonistica del rilancio post-bellico. Vennero di moda i piloti costruttori, i self-made-men delle corse, gli operai del volante, molti dei quali trovarono in questo sport anche il riscatto sociale di una vita durissima. Ma senza l'esuberanza piacevole e anche sbarazzina tipica dell'emigrato di ceppo latino, ma invece con tutta la determinazione e la freddezza del «colono» angolosasssone. Il mondo delle corse era cambiato, come sapete, arrivando al tecnocraticismo in tutte le sue espressioni, senza più la carica che dovrebbe, per forza, mantenersi se si vuole dare credito al significato originario della parola sport, cioè «deporte», cioè svago.

Nel ricorrente ciclo delle vicende umane, anche lo sport dell'automobile, però, sta ritrovando questa perduta espressione; quella che sola può riumanizzarlo, ridandoci anche il piacere di una dimensione meno assoluta sul piano tecnico e più viscerale su quello umano. La dimensione delle cose anche gioiosamente improvvisate, pur nel rischio sempre immanente del dramma che questo tipo di agonismo implica.

Per arrivare a questo doveva avvicendarsi anche la generazione dei piloti, la razza intesa come nazionalità. Al freddo egocentrismo anglosassione, tanto meglio se torna a succedere l'esuberanza dei paesi cosidetti a ceppo latino. Tagliati fuori gli italiani, nel perenne controsenso della nostra esterofilia che piace tanto ai costruttori di casa (le famose campagne di Sabbatini a favore dei piloti italiani, volte a punzecchiare la Ferrari e l'Alfa Romeo: in particolare, quell'anno aveva un occhio di riguardo per Galli e nel mirino era entrata anche la Tecno ndr), ecco spuntare i campioni del terzo mondo del volante. Ritorna tutta la entusiasmante e coreografica esuberanza dei sud americani, dei quali il nuovo simbolo è proprio Emerson Fittipaldi, il ragazzo dal viso butterato dal vaiolo il cui padre decanta le gesta da quel podio oratorio dei mass-media moderni che è il microfono radiotelevisivo, mentre al suo box c'è una fresca fanciulla acqua e sapone, una moglie che non si ripete con la burocratica efficienza delle colleghe anglosassoni nel contargli i giri al suo cronometro, ma che ogni tanto sa anche andare a cinematografarsi il marito alla curva più difficile con curiosità da bambina. [...]

Se Emerson Fittipaldi vincerà il mondiale '72 potremo dire davvero che il mondo dell'automobilismo agonistico ha ritrovato la sua svolta; una svolta più umana. Dietro la curva troveremo certamente più entusiasmo e anche più piacere nel raccontare le gesta di questi piloti che pretendono di contare, come molti di loro ormai già fanno, le parole che ti elargiscono.

No, questo con Fittipaldi non succede. Perché, casomai, rimane con te, tu giornalista o tifoso, a parlare per un'ora e, poi, con l'accattivante sorriso che potrebbe benissimo procurargli una scrittura per un carosello, si scusa: «Oddio, adesso devo proprio andare, ho una riunione alla GPDA. È cominciata alle 11!». Ed erano le 12,30. Il rispetto per i colleghi aveva abdicato alla cortesia per l'interlocutore del momento.

AS n.16/1972 pagg. 8-9

Tutto vero quel che Sabbatini scrisse, ma va contestualizzato in quel preciso momento e poco oltre...

Autosprint era un grandissimo settimanale col "privilegio" (chiamiamolo così) di scrivere in un periodo d'oro delle corse, fattore che rende le vecchie copie una sorta di Bibbia.

Di questo si deve senz'altro conto a Marcello Sabbatini, principale divulgatore dell'automobilismo in Italia e che in talune occasioni ha scritto pezzi memorabili e condivisibili appieno,  non solo nell'ambito delle corse ma anche dei problemi dell' automobile di tutti i giorni (cose che all'epoca non capivo e poco mi interessavano, vista la mia età).

Sta di fatto che le opinioni su Fittipaldi cambiarono un poco da lì in futuro, anzi già su AS Anno si premuravano di specificare, dati alla mano, che "...non è mai stato il più veloce". Ma l' Emerson occasionale fortuniere di fine anno sparì con le prime vittorie dell'anno seguente "...quelli che avevano il coraggio di chiamarlo fortunato!" (beh talvolta proprio loro...). Tralasciamo ciò che scrissero qualche anno dopo sui principeschi contratti Marlboro e Copersucar (eh...il "piano umano") o presentandolo come pilota ormai finito. Tornava umano e pilota vero solo quando c'era da contrapporlo a Lauda però.

Perchè diciamo la verità , Autosprint ripeto era un grande giornale e Sabbatini a suo modo un grande giornalista (sinceramente mi dispiacque quando morì) ma lui e soprattutto certi suoi reggicoda scrivevano troppo sull'impeto del momento, polemicamente e partigianamente, eppure in seguito smentendosi spesso seppur con lo spirito del "noi l'avevamo detto". Incredibile.

Tralasciamo poi l'epoca Lauda davvero ai limiti dell'infamia e dello... stalking, o ancora peggio della vicenda Peterson/Monza cercando di sviare le colpe su James Hunt.

Sabbatini era fatto così, prendere o lasciare, i meriti sono notissimi ma l'altra faccia della medaglia pure. Io lo prendo, ma...ecco.

A mio parere

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Il 6/5/2021 at 21:09 , duvel ha scritto:

Sta di fatto che le opinioni su Fittipaldi cambiarono un poco da lì in futuro, anzi già su AS Anno si premuravano di specificare, dati alla mano, che "...non è mai stato il più veloce". Ma l' Emerson occasionale fortuniere di fine anno sparì con le prime vittorie dell'anno seguente "...quelli che avevano il coraggio di chiamarlo fortunato!" (beh talvolta proprio loro...). Tralasciamo ciò che scrissero qualche anno dopo sui principeschi contratti Marlboro e Copersucar (eh...il "piano umano") o presentandolo come pilota ormai finito. Tornava umano e pilota vero solo quando c'era da contrapporlo a Lauda però.

... lui e soprattutto certi suoi reggicoda scrivevano troppo sull'impeto del momento, polemicamente e partigianamente, eppure in seguito smentendosi spesso seppur con lo spirito del "noi l'avevamo detto". Incredibile.

Verissimo, per esempio nei resoconti e nelle analisi delle gare, per avere un quadro più chiaro della situazione molto spesso bisogna prendere con le pinze i testi e condurre una ricerca avendo a mente altre fonti più imparziali.

Tra l'altro, quanto a Fittipaldi c'è una statistica che corrobora il 'non è mai stato il più veloce', perlomeno per quanto riguarda il 1972: al di là del fatto che Emerson non fece segnare nessun giro veloce in gara (in prova, al contrario, sì), curiosamente, fu Stewart a detenere il maggior numero di giri in testa, considerati tutti e dodici gli appuntamenti e di sicuro Canada e USA contribuirono parecchio a creare questo dato. Su Road&Track fecero alcuni calcoli e ne uscì questo: Stewart 320 giri (887,6 miglia) distribuiti in sette gare, mentre Emerson 240 giri (605,6 miglia) distribuiti in sei gare. Il più regolare, invece, non fu né l'uno né l'altro, bensì Hulme, seguito addirittura da Peterson, che, al contrario degli altri tre, non trovò proprio il bandolo della matassa quell'anno, ma quella è un'altra storia a parte.

Modificato da Elio11
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