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Enzo Ferrari


Luke36

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  • 3 months later...

Ma Enzo Ferrari era fascista? Luca Dal Monte lo difende a spada tratta da questa "accusa" (se accusa può essere). Secondo Dal Monte Ferrari era un uomo dell'Ottocento, imbevuto di retorica risorgimentale che alcune volte ha fatto capolino in alcuni discorsi bollati come "fascisti". Dice che prese la tessera del PNF solo perché obbligatoria per chi doveva prendere il passaporto e a Ferrari il passaporto serviva. Offrì un validissimo aiuto alla resistenza, tanto da meritare la medaglia d'oro, anche se gli fu consegnata solo molto anni più tardi. Salvò il suo avvocato, Enzo Levi, dalle persecuzioni contro gli ebrei.

Sarà, però... Io ho i miei dubbi, vi elenco quali:

1) Durante la Repubblica Sociale Italiana, Ferrari si barcamenò tra tedeschi, fascisti e resistenza né più né meno come fecero tanti imprenditori italiani. Senza schierarsi troppo e aspettando che la bufera passasse. Aiutò la resistenza, ma fece anche degli ottimi affari con gli occupanti: il numero di addetti raddoppiò nel 1944 rispetto al 1940, segno che c'erano commesse e lavoro.

2) Enzo Biagi ne era convintissimo, tanto che in un documentario disse che amava l'Italia e il Movimento Sociale Italiano, appoggiato in questa sua affermazione da un collaboratore di Ferrari (non mi chiedete quale, ho visto il documentario 17 anni fa e non l'ho mai trovato su youtube).

3) La storia del funerale fascista di Dino Ferrari vi è sicuramente nota.

4) Non mi risulta che fosse obbligatoria la tessera del PNF per avere il passaporto. Ho fatto delle ricerche, ma senza esito, se qualcuno trova qualcosa gliene sarei grato.

5) Enzo Levi era un amico di famiglia (padre di Arrigo, tra l'altro).

Infine la mia prova, sempre tratta dal libro di Dal Monte. Subito dopo aver compiuto i novant'anni, la salute di Ferrari si deteriora a vista d'occhio. Alla FIAT lo sanno e cominciano a pianificare il futuro. Ferrari viene a sapere che Piccinini sarà rimosso dall'incarico. Gli manda un breve messaggio dove c'è scritto: "Marco, ti rimpiangeranno! Paradiso, 28 ottobre 1988". Quindi, già nella primavera del 1988 Ferrari sapeva che non avrebbe superato l'estate. Ma la data scelta più ambigua non potrebbe essere: il 28 ottobre 1922 c'è stata la marcia su Roma. Lui, che il fascismo lo ha vissuto tutto, quella data l'ha celebrata anno dopo anno per tutto il ventennio (era festa nazionale).

 

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  • 5 weeks later...
  • 2 weeks later...

Tra le macerie di un'Italia sbriciolata dalla guerra, che pensava all'aria libera e al pane bianco, lui ridisegnò la mappa del suo sogno.

Al punto X, dove i corsari segnavano il luogo delle perle e degli ori nascosti, indicò il suo tesoro.

Era entrato in quella età in cui il sospetto che il meglio della vita sia già passato comincia a minare i gesti e i pensieri. E' difficile che un destino d'eccezione aspetti i cinquant'anni per bussare alla porta. 

A lui piacevano i cinquant'anni, li vedeva vicini vicini, pieni di vita e di entusiasmo, ben protetti dal portamento che si era fatto ancor più maestoso, dal profilo ancor più grifagno, dai pensieri invasi da una superiore consapevolezza.

Doveva accontentarsi di cavalcare ombre e ricordi? O dirsi che ormai era troppo tardi? 

Un giorno si era innamorato dell'automobile e, innamorandosene, aveva scoperto ciò che avrebbe sempre avuto il fascino di una rivelazione.

L'automobile era due cose: la carrozza e il motore.

Ma la carrozza era vecchia di secoli, di millenni; era il motore il vero miracolo.

Il motore, questo ingegnoso insieme di pezzi, richiama troppo da vicino la vita per non meravigliare.

E il segreto sta tutto in una cavità circolare nella quale un braccio e un pugno di metallo vanno e vengono. Li chiamarono cilindri. Al tempo del suo sogno primordiale, quando credeva che amare l'automobile volesse dire solo correre, imparò che al di là dell'oceano si costruivano motori che nelle loro viscere avevano dodici pugni che andavano e venivano. 

"Il dodici cilindri è un motore che io ho sempre vagheggiato". 

Al punto X, la mappa ridisegnata del suo sogno portava un'idea carica di tutte le possibili promesse e di tutte le possibili difficoltà: costruire un motore proprio a dodici cilindri e da lì cominciare. 

"Su, tenta!", si disse. 

Poteva diventare un titano, un naufrago o un mezzo uomo, il che è ancora peggio che naufragare. Wagner faceva sgorgare le parole dalla musica, era il suo procedimento. Lui farà sgorgare le automobili dal motore. Sarà il suo segreto.

(Cesare De Agostini, "Enzo Ferrari, 'il' Sceriffo", Conti Editore 1985)

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  • 3 weeks later...

Consiglio a tutti lo speciale di AutoSprint per i 70 anni della Ferrari. Più vado avanti nella lettura e più mi piace.

Per soli 5 euro, un fascicolo di grande formato di ben 130 pagine (senza NESSUNA pubblicità), molti aneddoti inediti, testimonianze significative, belle foto di grande formati, e addirittura tutti gli articoli scritti da Enzo Ferrari per AS nel 1966 sulla rubrica "Il Tunnel".

Non ve ne pentirete.

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  • 2 weeks later...
  • 5 months later...

Le vicissitudini dell'ingegner Mauro Forghieri alla recente celebrazione del 70° anniversario della Ferrari, dove nemmeno Montezemolo è stato invitato, mi hanno riportato alla mente un interrogativo, che AS trasformò in un servizio all'inizio del 1989. Che cosa rimane veramente di un'azienda quando scompare l'ideatore? E' sempre la stessa azienda, o è una cosa necessariamente diversa?

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  • 5 months later...
  • 1 month later...
  • 7 months later...
Il 19/1/2017 at 18:03 , Catone ha scritto:

Ma Enzo Ferrari era fascista? Luca Dal Monte lo difende a spada tratta da questa "accusa" (se accusa può essere). Secondo Dal Monte Ferrari era un uomo dell'Ottocento, imbevuto di retorica risorgimentale che alcune volte ha fatto capolino in alcuni discorsi bollati come "fascisti". Dice che prese la tessera del PNF solo perché obbligatoria per chi doveva prendere il passaporto e a Ferrari il passaporto serviva. Offrì un validissimo aiuto alla resistenza, tanto da meritare la medaglia d'oro, anche se gli fu consegnata solo molto anni più tardi. Salvò il suo avvocato, Enzo Levi, dalle persecuzioni contro gli ebrei.

Sarà, però... Io ho i miei dubbi, vi elenco quali:

1) Durante la Repubblica Sociale Italiana, Ferrari si barcamenò tra tedeschi, fascisti e resistenza né più né meno come fecero tanti imprenditori italiani. Senza schierarsi troppo e aspettando che la bufera passasse. Aiutò la resistenza, ma fece anche degli ottimi affari con gli occupanti: il numero di addetti raddoppiò nel 1944 rispetto al 1940, segno che c'erano commesse e lavoro.

2) Enzo Biagi ne era convintissimo, tanto che in un documentario disse che amava l'Italia e il Movimento Sociale Italiano, appoggiato in questa sua affermazione da un collaboratore di Ferrari (non mi chiedete quale, ho visto il documentario 17 anni fa e non l'ho mai trovato su youtube).

3) La storia del funerale fascista di Dino Ferrari vi è sicuramente nota.

4) Non mi risulta che fosse obbligatoria la tessera del PNF per avere il passaporto. Ho fatto delle ricerche, ma senza esito, se qualcuno trova qualcosa gliene sarei grato.

5) Enzo Levi era un amico di famiglia (padre di Arrigo, tra l'altro).

Infine la mia prova, sempre tratta dal libro di Dal Monte. Subito dopo aver compiuto i novant'anni, la salute di Ferrari si deteriora a vista d'occhio. Alla FIAT lo sanno e cominciano a pianificare il futuro. Ferrari viene a sapere che Piccinini sarà rimosso dall'incarico. Gli manda un breve messaggio dove c'è scritto: "Marco, ti rimpiangeranno! Paradiso, 28 ottobre 1988". Quindi, già nella primavera del 1988 Ferrari sapeva che non avrebbe superato l'estate. Ma la data scelta più ambigua non potrebbe essere: il 28 ottobre 1922 c'è stata la marcia su Roma. Lui, che il fascismo lo ha vissuto tutto, quella data l'ha celebrata anno dopo anno per tutto il ventennio (era festa nazionale).

 

Due pagine dal libro-intervista di Enzo Biagi:

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COME LA SCUDERIA FACEVA QUADRARE I CONTI

Di Romolo Tavoni (dirigente Ferrari 1950-1961)

In merito agli ingaggi e ai premi di partenza, Ferrari mi ha raccontato che con le corse non ha mai perso soldi, ma questo era vero quando ormai si era affermato.

Prima, aveva sempre detto che invece le corse gli costavano moltissimo. Ferrari aveva un suo sistema per trattare gli ingaggi, una specie di segreto che ho scoperto andando alla Ferrari all’inizio del 1950 e dovendo scrivere agli organizzatori la lettera che mi dettava.

In sintesi, la lettera diceva: “Gradiremmo ricevere il regolamento della vostra gara perché ne vorremmo tenere conto nel caso le nostre macchine fossero pronte e potessimo parteciparvi”.

Quello era il primo contatto, poi si cominciava a trattare l’ingaggio per una vettura sola chiedendo 2 milioni di lire a scendere. Ricevuta l’approvazione per una vettura, diceva “due” perché: “Mi viene pronta la seconda macchina”, poi, magari, ne aggiungeva una all’ultimo momento a trattativa ancora aperta. 
Alla fine le Ferrari potevano diventare tre.

Ma c’era una spiegazione molto semplice, che ho capito quando ho cominciato ad andare in giro per la Ferrari. Il 50% dei premi di partenza e il 50% dei premi di classifica servivano a spesare la preparazione delle vetture nel reparto Gestione Esperienza Sportiva, cioè il reparto corse che era all’origine dell’azienda. Dei premi per la seconda macchina, il 50% doveva coprire le spese di trasferta. Per la terza macchina, la metà del premio di partenza era destinato alla preparazione di tutte le vetture per la gara successiva. Ecco perché Ferrari diceva che ci perdeva l’anima ma, in realtà, riusciva a pareggiare entrate e uscite dalle gare.

Un tipico dialogo con Ferrari sull’argomento premi di partenza potrebbe essere questo, di cui non ricordo l’occasione specifica, ma non è importante perché, più o meno, era sempre così: “Tavoni, ci hanno garantito per due macchine un milione e mezzo di premio di partenza, per la terza macchina solo un milione. Tu devi andare là e farti dare l’altro mezzo milione. Lo dici a nome mio perché se non ti danno il mezzo milione anche per quella, carichi tutte le macchine e vieni a casa”.

Altra chiamata al momento della partenza: “E ricorda bene, mi devi telefonare per il mezzo milione della terza macchina che non hanno confermato”.
“Commendatore, ma se gli organizzatori le hanno detto che questo era il massimo che potevano fare, che non era prevista la terza macchina, che se lei non la manda va bene lo stesso e la ringraziano per le due: sarà difficile per me”. 
E lui, alzando la voce non per cattiveria, ma perché era il suo modo di esprimersi: “Tu ci devi riuscire perché tu parli per me”.
“Sì, ma commendatore, io non posso mica tenere il suo atteggiamento, io sono magro come uno stuzzicadenti, sono piccolo, vado là e cercherò di spiegare le nostre ragioni”.

I premi servivano anche per nuove sperimentazioni, nuove attività, nuove ricerche. Dopo la vittoria di Gonzalez a Silverstone nel 1951 (British Grand Prix 14 luglio) Ferrari aveva cominciato a chiedere un contributo finanziario ai produttori di accessori.

Aldo Daccò, importatore delle candele Champion in Italia, fu il primo che diede un contributo legato al primo, secondo e terzo posto. Dopo la Champion, Ferrari trattò e ottenne contributi, sempre legati ai primi tre posti in classifica, da Shell e Pirelli.

Quando riceveva il calendario annuale delle corse, che chiedeva il più presto possibile, Ferrari tirava giù una riga sotto al Gran Premio d’Italia. Voleva dire che con quella gara finiva la stagione, a meno che non ci fosse un campionato ancora in ballo.

Se in cassa c’erano soldi, li spendeva per migliorare le macchine che avrebbe impiegato l’anno dopo. Se non ce n’erano si finiva proprio con Monza solo se l’Automobil Club di Milano metteva un po’ più soldi per la partecipazione al Gran Premio d’Italia.

Nei due anni, 1954 e 1955, del dominio Mercedes, Ferrari aveva il coraggio di dire: “Io vengo e se volete battermi dovete darmi più soldi perché altrimenti voi fareste la gara con due o tre macchine soltanto e non avreste lo spettacolo. Lo spettacolo lo faccio io venendo a farmi battere, quindi mi dovete pagare di più”.

La programmazione di quegli anni prevedeva sempre tre vetture Sport con sei piloti, che dovevano anche correre in F1 più volte all’anno. Tra le principali gare si sceglieva il Giro di Sicilia per favorire i clienti assistiti. Invece, alla Targa Florio e alla gara Sport di Monza bisognava partecipare direttamente. La Coppa Intereuropa a Monza era un altro impegno prioritario perché era qualificante per i clienti e per le GT che poteva vendere.

L’impegno maggiore era comunque riservato alle F1 che allora avevano un telaio robusto che potesse portare un motore pesante con un cambio di dimensioni quali oggi si potrebbero trovare in un grand Tir e con ingranaggi frontali che, a forza di usare il cambio, rompevano le mani ai piloti.

Allora, il facente funzione direttore sportivo, perché il direttore sportivo della Ferrari è sempre stato Enzo Ferrari, faceva da tramite tra pilota e Ferrari. E quando, alla fine delle prove, il pilota mi diceva: “Oggi ti posso dire che quel motore che m’avete messo sulla macchina non l’avete neanche sognato la volta scorsa”, io gli rispondevo: “Se dici una cosa così e magari la sente Enrico Benzing e la scrive, tu perdi la possibilità di continuare a fare il tuo lavoro perché se vuoi che la Ferrari si impegni a fare qualcosa di più gli devi dire: “Commendatore, noi stiamo andando bene, ma la concorrenza è leggermente avanti, se potessimo fare qualche cosa di più li batteremmo”.

Non è che Ferrari non amasse i suoi piloti: era un innamoramento su base settimanale, a seconda di chi vinceva. Se la squadra di F1 era di tre piloti, ne portava solo uno a pranzo, anche se erano tutti e tre presenti, dicendo: “Voglio parlare di un’altra cosa, venga con me a pranzo”. Gli altri due rimanevano lì ed era imbarazzante, ma lo faceva, direi, quasi apposta.

Ricordo che, dopo la prima vittoria a Silverstone, Gonzalez gli ha detto: “Commendatore, se lei mi chiede come ho fatto a vincere non lo so. So solo che in tre curve, quando alla fine ero rimasto senza freni, ho parlato sempre con San Pietro”.
Ferrari ha risposto: “Però San Pietro non stava guidando la macchina, quindi tu devi dire che la macchina andava bene, che era una Ferrari e che aveva tutto il necessario per vincere”.

Un altro esempio: dopo non so più quale gara c’erano da distribuire i premi accessori tra Ascari e Villoresi. Ad Ascari diede tutti e otto i premi accessori che gli spettavano, a Villoresi ne diede quattro. Se, per ipotesi, qualcuno gli avesse chiesto il perché di questa differenza, avrebbe risposto: “Perché non è Ascari”. La frase non sarebbe certo risultata gradevole all’interessato, ma questo era l’uomo.
Nella telefonata dopo ogni corsa, la prima domanda che mi faceva era sempre: “Hai avuto i soli o hai trovato l’accordo?”. La seconda era: “Come sono andate le vetture?”. La terza domanda, se mi capitava di dover dire: E’ arrivato lungo, è uscito di strada”: Che cos’ha la vettura?”.

Si potrebbe pensare che Ferrari fosse un uomo insensibile. Non è vero, non è vero. Era solo che il pilota di turno guidava la macchina che avrebbe voluto guidare lui perché lui ha sempre detto: “Io sono stato pilota, sono stato direttore generale quando la Scuderia Ferrari si è trasferita a Modena: io ho le macchine, io le costruisco, do il meglio che ho. Vorrei che le guidassero come le guidavo io”.
Questo atteggiamento di insoddisfazione latente nel rapporto con il pilota nasceva soltanto dal suo piccolo egoismo di sentirsi vincitore quando il pilota vinceva, quando gli portava il risultato. In questi casi, nel pilota rivedeva se stesso e trovava la proiezione ulteriore per andare oltre perché lui con le corse ha costruito un’azienda.

(Tratto da "Come non ci fosse un domani. Stile di corsa e di vita degli anni cinquanta", volume monografico dedicato ai soci AISA - Associazione Italiana per la Storia dell'Automobile)

http://www.aisastoryauto.it/libri/come-non-ci-fosse-un-domani/

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Q

Il 21/11/2018 at 22:45 , sundance76 ha scritto:

Due pagine dal libro-intervista di Enzo Biagi:

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Ce l'ho anch'io quel libro. Il documentario di Enzo Biagi cui mi riferisco è successivo alla morte di Ferrari. Resto convinto che fosse un simpatizzante, tutto sommato moderato. E comunque la sua azienda veniva prima di qualunque idea politica. Fece come quasi tutti gli imprenditori italiani: si barcamenó tra occupanti, fascisti e resistenti. Sperando di cavarsela in attesa di tempi migliori.

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