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    Johnny Dumfries

    John Colum Crichton-Stuart, settimo Marchese di Bute, nato il ventisei Aprile 1958, già Conte di Dumfries prima del 1993, è un nobile britannico ed ex-pilota, ora commerciante e collezionista di opere d’arte. In particolar modo, è celebre per avere vinto la 24 Ore di Le Mans nel 1988 e per aver preso parte al campionato mondiale di Formula Uno con la scuderia Team Lotus. Oggi preferisce essere chiamato semplicemente John Bute. La carriera di Dumfries sembrerebbe essere iniziata abbastanza tardi nel 1978con i kart, grazie alle intuizioni del più famoso cugino Charlie. Salì di categoria nel 1982, approdando nella Formula Ford 1600 al volante di una Ray 82F. L’anno seguente, nel 1983, disputò tredici gare nel Campionato di Formula 3 Britannica con una Ralt RT3 della scuderia ‘Associated Racing’ ottenendo, complessivamente, otto punti. Con la stessa vettura e lo stesso team prese parte a un appuntamento del ‘Campionato di Formula 3 Europeo’ senza ottenere grandi risultati e, inoltre, ebbe modo di saggiare il livello degli avversari nel campionato continentale una seconda volta con alle spalle una diversa scuderia, la quale si rivelerà essere fondamentale per la carriera futura del pilota, il ‘Team BP/David Price’. Si trattò di una squadra meglio organizzata della precedente con cui Dumfries sarà destinato a togliersi alcune soddisfazioni. Nonostante questi risultati, nel 1984, anno chiave per il prosieguo del suo iter agonistico nel mondo dell’automobilismo professionistico, venne impiegato su più fronti: continuò l’avventura nella ‘F3 Britannica’ vincendo il titolo nettamente grazie alle prestazioni della Ralt RT3 del ‘Team BP/David Price Racing’ (ben dieci vittorie, un numero eguale di pole positions e undici podi, per un bottino di centosei punti finali), poi, fu la volta di Macao (i primi legami instaurati con il Team Lotus, tramite lo sponsor John Player Special) dove, però, fu autore di una prestazione deludente e, ancora, ebbe modo di avventurarsi nel mondo delle gare di durata a ruote coperte, prendendo parte al ‘FIA WEC’, con una Porsche 956. Se il parco partenti della F3 Britannica di quell’anno non poté essere in grado di offrire, secondo un giudizio dato a posteriori, un livello di qualità eccelsa, essendo il canadese Allen Berg , l’italo-statunitense Ross Cheever e il tedesco Volker Weidler gli unici piloti ad aver fatto una carriera di ‘spessore’, al contrario, a livello europeo, quantunque lo scenario fosse mutato decisamente in tal senso, Dumfries seppe farsi valere egregiamente. Terminò, infatti, in seconda posizione con cinquantaquattro punti, frutto di quattro vittorie, sei podi e sette pole positions, dietro soltanto a Ivan Capelli. Ebbe modo di prevalere su piloti del calibro di Gerhard Berger, l’irlandese Tommy Byrne e, ancora, Perez-Sala, Oliver Grouillard, Barbazza e i promettenti Marco Apicella, Gabriele Tarquini e Forini. Quell’anno parteciparono al campionato anche due figli d’arte impegnati nelle corse come Paul Belmondo, e Giovanna Amati, un nipote dal cognome pesante come Juan Manuel Fangio II e lo svedese Tommy Borgudd a fine carriera. Tutto ciò, gli valse la possibilità di compiere delle prove con il Team Lotus in Formula Uno alla guida della Lotus-Renault 95T a Donington Park, i risultati delle quali furono apprezzati da Peter Warr e Gerard Ducarouge. Nel 1984, dunque, fu incoronato campione della F3 Britannica, al volante di una Ralt RT3/83-Volkswagen al servizio della scuderia ‘Dave Price Racing’. Terminò la stagione totalizzando centosei punti, con in carniere dieci vittorie. Secondo arrivò Allen Berg , fermo a sessantasette punti. Nel 1985 Dumfries, allontanatosi a seguito di scelte volontarie opinabili e poco lucide dal team ‘Dave Price Racing’, prese parte al Campionato di Formula 3000 approdando al ‘Team Onyx’. Nel corso della stagione si alternò alla guida di una March 85B - Silverstone, Thruxton, Estoril e Vallelunga - e di una Lola T950 nelle restanti gare. I risultati in pista non furono certo soddisfacenti e, a riprova di ciò, il migliore acuto arrivò al volante della March, un sesto posto a Vallelunga nel Lazio. Chiuse il campionato in sedicesima posizione. Nel frattempo, dopo aver perso l’opportunità di essere ingaggiato dalla Brabham, diventò il primo pilota britannico impiegato dalla Ferrari dal lontano 1968, chiamato a occuparsi dello sviluppo dei motori turbo. Disputò, ancora una volta, la gara di Macao e lo fece ricongiungendosi al team ‘Dave Price Racing’ al volante di una Reynard 853-Volkswagen, chiudendo in dodicesima posizione. Andrebbe menzionato anche l’evento ‘Formula 3000 Curaçao Grand Prix’, organizzato dalla SCCA e disputato in un circuito cittadino della ‘capitale amministrativa’ Willemstad delle, ormai, non più esistenti Antille Olandesi, dipendenza del Regno dei Paesi Bassi. Le vetture presero il via in condizioni di ‘bagnato’ e John Nielsen, il vincitore davanti a Ivan Capelli, anni dopo, ricorderà così quella gara: - “Fu una gara pazzesca. L’asfalto era stato reso così scivoloso da tutto quell’olio perso dalle vetture americane in gara prima di noi che fummo costretti a montare gli pneumatici da bagnato. Quando questi si consumarono terminammo la scorta che di essi avemmo in dotazione. Non erano previste condizioni da bagnato e le squadre non si premunirono portando molte gomme di quel tipo. Dovemmo utilizzare le gomme da qualifica per completare il resto della gara”. Dumfries si qualificò in settima posizione con la March 85B-Cosworth e, dopo trentadue giri di gara, fu costretto al ritiro in conseguenza di un contatto poco piacevole con i muretti di cemento a bordo pista. L’anno seguente, nel 1986, Johnny riuscì a ottenere la seconda guida del Team Lotus. Il pilota inglese subentrò a Elio De Angelis, passato da poco alla Brabham. Questo ingaggio venne favorito dalla richiesta di Senna, che osteggiò l’arrivo di Derek Warwick. Il Team Lotus, forte delle vicende recenti e consapevole di dovere concentrare tutte le attenzioni verso una sola guida, optò per Johnny, non più giovanissimo e poco esperto. Il debutto nel Campionato del Mondo di Formula Uno avvenne a Rio de Janeiro, in occasione del Gran Premio del Brasile: dopo essere partito in undicesima posizione in griglia, Dumfries fu autore di un’ottima gara, considerato il suo status di debuttante, e, a metà della gara, riuscì a condurre la sua Lotus 98 in quinta posizione (dietro a Piquet, Senna, Arnoux e Laffite). Si sarebbe trattato di un risultato valevole i primi punti della carriera. Tuttavia, problemi elettrici lo costrinsero a indietreggiare fino alla nona posizione finale, accumulando, per giunta, qualche giro di ritardo dal vincitore. Si trattò di un buon banco di prova, in quanto la gara vide molti ritiri e pochi piloti giunti al traguardo. Durante la prima sosta di quel Gran Premio avvenne un’incomprensione: Dumfries imboccò la via per il ritorno ai box, proprio quando Senna era in procinto di cambiare le gomme. I meccanici agirono prontamente e lo lasciarono ripartire senza troppi patemi. La volta seguente, Johnny necessitò di rientrare ma Senna già stava occupando la piazzola. Allora, giocoforza, Dumfries dovette aspettare compiendo una tornata ulteriore e sforzando ulteriormente il motore quasi esausto, prima di potersi fermare. Al tempo della terza sosta, le noie al motore parvero essere superate da molti giri ma la possibilità di giungere a punti era diventata, oramai, un miraggio. Il percorso di Dumfries nel resto della stagione risentì dell’inaffidabilità del motore Renault V6 Turbo montato sulla vettura progettata da Ducarouge e delle difficoltà di migliorare un ottimo pacchetto iniziale per mancanza dei fondi necessari. A Montecarlo, addirittura, Dumfries non poté partecipare alla gara e ciò dovette essere imputato all’impossibilità di riparare in tempo la vettura schiantatasi all’inizio delle qualifiche. A Detroit, a Giugno, altro circuito cittadino capace di mettere a dura prova la tenuta delle vetture , oltre che poco adatto per i motori turbo, il nobile scozzese fu uno dei pochi sopravvissuti dopo un’estenuante gara che vide molti ritirarsi per problemi di elettronica e di trasmissione. A Brands Hatch, terminò in settima posizione, a ridosso della zona punti, dopo essersi qualificato tra i primi dieci. Due settimane più tardi scampò a un incidente che coinvolse la Ferrari di Johansson e la Benetton di Teo Fabi ma dovette arrendersi quando, tornato ai box per montare nuovi pneumatici e difendere la settima posizione occupata, gli fu riscontrato un problema di perdita d’acqua. A Budapest arrivò la prima vera soddisfazione, poiché il quinto posto nel Gran Premio di Ungheria rappresentò i primi punti iridati in carriera, due per la precisione, risultato replicato proprio nell’ultima gara di Dumfries in Formula Uno (e della JPS in Formula Uno tra l’altro), ad Adelaide. In Messico, nella gara precedente a quella australiana, Johnny fu perseguitato ancora una volta da un problema in qualifica. Partì in diciassettesima posizione e completò soltanto quattordici tornate. Al contrario, il suo compagno di scuderia, Senna ottenne la settima pole position stagionale e, percorrendo il rettilineo in gara, raggiunse la velocità di 346.302 chilometri orari. La stagione si chiuse con un bottino di soli tre punti, risultato che lasciò molti interdetti, alla luce dei sorprendenti risultati di Ayrton Senna. Scaricato dalla Lotus forzatamente, in virtù di un intreccio che vide protagonisti la casa giapponese costruttrice di propulsori, Honda, e, ancora una volta, il brasiliano, tentò di concludere una trattativa con i nuovi arrivati della Zakspeed. A fine anno fu di scena a Macao con una Reynard 863 e sempre con il ‘Dave Price Racing’, anche questa volta senza un risultato finale di rilievo. Abbandonata la Formula Uno, temporaneamente, emigrò negli USA nel campionato a ruote coperte ‘IMSA Camel GTP Championship’ correndo con la nuova Porsche 962. Dumfries prese parte a tre gare vincendo a Elkhart Lake, Road America. Corse anche in Giappone nel ‘All Japan Sports Prototype Car Endurance Championship’, campionato locale per vetture prototipi. I suoi sforzi si concentrarono, in massima parte, nel campionato ‘World Sports-Prototype Championship’ alla guida, complessivamente nell’arco della stagione, della Ecosse C286-Ford, Sauber C9-Mercedes, Porsche 962C e Jaguard XJR-8. Su sette gare un trionfo nella 1000 Km di Spa-Francorchamps assieme a Martin Brundle e Raul Boesel su Jaguar, in aggiunta a quattro podi. In occasione della prima partecipazione alla 24 Ore di Le Mans si ritrovò in coppia con Mike Thackwell e Chip Ganassi. Problemi di trasmissione, verificatosi al trentasettesimo giro li costrinse al ritiro. Tornò a calcare le piste con una monoposto nuovamente a Macao, questa volta in seno al team ufficiale della Volkswagen, denominato ‘Volkswagen Motorsport’ al volante di una Ralt RT31, nono posto finale. Nel frattempo, riallacciò i contatti nel circus della Formula Uno grazie alla Benetton e a Luciano Briatore: avrebbero firmato un contratto l’anno seguente. Per il 1988 Dumfries si concentrò definitivamente sul campionato endurance, e passò in pianta stabile a condurre una Jaguar XJR-9 “Gruppo C” con cui disputò l’intero Campionato Mondiale Sport Prototipi. Una convincente affermazione giunse quando, impiegato in Francia sul circuito Bugatti Le Mans, ebbe modo di conquistare la vittoria nella più che nota 24 Ore di Le Mans, in coppia con Jan Lammers e Andy Wallace. Con la scuderia gestita dallo scozzese Tom Walkinshaw prese parte a nove gare, ottenendo ottantotto punti in classifica. Contemporaneamente, ritentò l’avventura nel campionato ‘IMSA GTP’ (in scena per una sola gara con una Jaguar XJR-9 del ‘Castrol Jaguar Racing’), si cimentò nel ‘Campionato Turismo britannico BTCC’ ma la sua fu una fugace apparizione senza lasciare il benché minimo segno, e acconsentì a ‘retrocedere’ temporaneamente in F3000 con una Reynard 88D del ‘GEM Motorsport’, rimasta orfana proprio di Wallace, in occasione delle restanti due gare della stagione. Ebbe, inoltre, inizio il triennio che vide lo scozzese legato al Team Benetton: portò in pista, inizialmente, la Benetton-Ford Cosworth B188 dotata del primo impianto di sospensioni attive. L’anno successivo Dumfries si ripresentò nel campionato prototipi giapponese, nel turismo britannico e, soprattutto, nel Gruppo C, stavolta, alla guida di una Toyota 88C e 89C-V del ‘Team TOM’S Taka-QTeam’ con cui disputò otto gare, agguantando un quarto posto a Digione in coppia con Geoff Lees. Per molti, non per Johnny, l’episodio più memorabile avvenne a Le Mans. Dopo essere andato fuori pista nei pressi delle ‘Porsche Curves’ e avere danneggiato le sospensioni posteriori, sostò, scese dalla vettura e, di fronte a dozzine di telecamere televisive, tentò, invano, di apportare riparazioni ‘alla buona’ manualmente, un’attività che si protrasse per ben due ore, per giunta, alla presenza inerme di una moltitudine di meccanici del suo stesso team i quali, accorsi sul luogo per aiutare, furono bloccati in questo loro intento dagli ufficiali di gara. Quando, stremato dalla fatica, poté riprendere il via, avvenne il secondo fatto tragicomico: all’atto della ripartenza passò sopra i cavi di una telecamera che, avviluppatisi attorno a una ruota posteriore, distrussero quel poco che Johnny era riuscito a rattoppare. Nel 1990 continuò il rapporto con i nuovi datori di lavoro pur non ripetendo alcun exploit con il nuovo modello Toyota 90C, complice anche una concorrenza che si stava facendo molto agguerrita. Nel frattempo, Dumfries continuò a svolgere mansioni di test driver per la Benetton: le ultime prove private risalgono al Dicembre 1990, quando il ‘Conte’ si impegnò alla guida di una B190 a Estoril, Portogallo. Il canto del cigno ebbe luogo proprio a Le Mans, nel 1991, al volante di una Cougar C26S che montò un motore Porsche V6 abbastanza datato, ammutolitosi al quarantacinquesimo giro. La carriera sportiva di Dumfries si interruppe improvvisamente, al termine della stagione 1992, a causa dei problemi di salute del padre, il quale sarebbe deceduto qualche mese più tardi, lasciandogli in eredità, tra le altre cose, il fardello di doversi occupare degli affari di famiglia. Nell’anno duemilaotto il giornale ‘Sunday Times’ nel suo supplemento redatto annualmente, stilò una classifica degli uomini più ricchi della Gran Bretagna e Lord Bute si attestò alla seicentosedicesima posizione. L’anno precedente era stata alienata la proprietà immobiliare di Cumnock per un valore nominale di quarantacinque milioni di sterline, vendita costata una perdita ingente in termini di posizioni in questa speciale lista. ‘In the age before Bute’ – ‘MotorSport’ Marzo 2006, pag. 52 e ss. Digitate le parole ‘Johnny Dumfries’ in qualsiasi motore di ricerca internet e sarete reindirizzati verso una qualche pagina enciclopedica relativa alle competizioni automobilistiche. Vi sarà detto della sua nascita – avvenuta in un castello (Castello di Rothesay ndr) – e che ora è un pittore talentuoso. Vi immaginerete quel tipo di persona che, dopo avere lasciato momentaneamente da parte il sangue blu e avere avuto una carriera da pilota, la stessa che gli diede la possibilità di arrivare a guidare in Formula Uno con la Lotus e a vincere la 24 Ore di Le Mans con una Jaguar, sia ritornata sui suoi passi con l’intento di riassumere con animo sereno quei doveri che sapeva fin dal principio essere gravanti su di lui, in quanto settimo marchese di Bute. Eccolo lì nei giardini della sua dimora: ‘Jeeves, vai a prendermi la tavolozza dei colori, e portami un Pimms (un cocktail ndr) e una limonata.’ Tuttavia, Johnny Bute, così pretende di essere riconosciuto dopo aver assunto il titolo di marchese nel 1993, è molto di più. “Sono nato davvero in un locale adibito a ricovero ospedaliero” – ride sommessamente, prima di aggiungere che la ricchezza di famiglia a Mount Stuart è davvero rappresentata da ‘una residenza molto spaziosa’. Il passatempo della pittura? “Beh, mi è sempre piaciuto dipingere e decorare!” L’intervista ha luogo lontano dallo splendore dell’ancestrale castello. Ci troviamo in una sala riunioni dall’aspetto spartano vicino alla stazione ‘London Bridge’, dove Dumfries (va bene, non è più il suo nome attuale, ma nel mondo motoristico sarà sempre ricordato con questo cognome) manda avanti una delle due imprese in suo dominio. (...) Nato John Crichton-Stuart, Conte di Dumfries, iniziò a interessarsi del mondo dei motori dopo essere rimasto affascinato dalle gesta di suo cugino Charlie, valente pilota di F3 negli anni Sessanta e, in seguito, uomo chiave della scuderia Williams per dieci anni sul versante della logistica commerciale. Di fatti, grazie all’interesse di Charlie Crichton-Stuart la Williams concluse, ad esempio, l’accordo di sponsorizzazione con Saudia e TAG : “Charlie al tempo in cui eravamo bambini ci veniva a trovare spesso e io ero abbastanza preso dal fatto che fosse un pilota di corse vero e proprio” – ricorda Johnny – “Al tempo in cui lui gareggiava era ancora uno sport con un lato romantico depurato dagli interessi che ci girano attorno oggi”. Svogliato a scuola, frequentò istituti pubblici, tra l’altro, Dumfries prese la decisione di lasciare gli studi all’età di sedici anni per trovare lavoro come decoratore di opere d’arte. Poi, raggiunti i diciannove anni, Charlie lo aiutò a trovare un lavoro alla Williams come autista dei furgoni adibiti al trasporto delle attrezzature. Questo accadde nel 1977. L’anno seguente divenne un meccanico per la ‘BS Fabrications McLaren Team’ e, dopo poco tempo, incominciò la sua avventura come pilota nell’ambito dei kart, nella classe 100cc. Un incidente gli costò la rottura di entrambe le caviglie nel 1980. Passò, quindi, nella Formula Ford nel 1981 e un nuovo sponsor si fece avanti, Luigi Graziano. “Luigi era un fanatico dei motori e mi ripeteva continuamente di stare lavorando per portarmi nella F3 entro il 1983”. Quell’entusiasmo assicurò a Johnny un deciso cambio di rotta nelle prospettive di carriera: ‘David Price Racing’ gli affidò la Ralt RT3 con cui la scuderia aveva fatto correre Martin Brundle nel 1982. L’ex pilota di Formula Uno Dave Morgan avrebbe gestito il giovane intraprendente: “Andai a ritirare la monoposto con la tuta da lavoro, con la mia vettura personale e un rimorchio. Dave Price aveva una segretaria al tempo, Teresa, che irruppe nel suo ufficio ed esclamò allarmata: - ‘C’è un certo tizio qua fuori che vorrebbe prendere in consegna la vettura, ha l’aria di essere un meccanico qualunque!’. A Silverstone, durante l’appuntamento del ‘Campionato di Formula 3 Europeo’, nel Giugno 1983 si fece notare per la prima volta in modo lampante battagliando per la seconda posizione. “Brundle in quella gara andò in carrozza. Ayrton Senna fece una scelta rischiosa con le gomme e utilizzò tre differenti mescole degli pneumatici Yokohama sulla sua vettura. Non gli andò bene, non sembrarono funzionare affatto. Andò in difficoltà seriamente e non trovò il modo di controllare la vettura. Lungo la Stowe ci toccammo e io finì su quella maledetta erba a tutta velocità, il che non fu una bella sensazione. Poi, piano piano riuscii a riprenderlo”. Il momento cruciale giunse alla ‘Club’ dove Senna andò in difficoltà e, di conseguenza, per evitarlo Dumfries percorse il cordolo in modo deciso: “Ciò fece inclinare il fondo scocca, che piegò il perno scorrente lungo il sistema della pedaliera, cosicché il cambio iniziò a vacillare”. Johnny, in definitiva, fu costretto al ritiro per sovralimentazione del motore. Più tardi, venne il momento dell’appuntamento a Donington per il campionato europeo: “Dave Price mi telefonò e mi disse: - ‘Ho avuto il permesso della British Petroleum di schierare due piloti a Donington e vorrei che fossi tu a guidare la seconda monoposto. Ho dovuto farmi il ‘mazzo’ per convincere Thacker, lui non è molto convinto perché combini sempre incidenti’ – e prima che io potessi replicare aggiunse – ‘Guarda, fammi il piacere di non sfasciare quella c**** di macchina’. In gara, Dumfries si fece coinvolgere in un contatto nel tentativo di difendere il secondo posto dall’attacco di Tommy Byrne ... Nonostante gli alti e bassi, Johnny si assicurò il supporto dello sponsor BP anche per il 1984. Nel campionato di Formula 3 britannica spazzò via i suoi avversari, mentre, a livello europeo, sorprendentemente, diede del filo da torcere a Ivan Capelli e fece di Gerhard Berger, Roberto Ravaglia e John Nielsen un ‘sol boccone’. Dopo che Brundle si ruppe le gambe a Dallas, arrivò, addirittura, la chiamata dalla Tyrrell per debuttare in Formula Uno. “Ken Tyrrell era una persona deliziosa. Era uno di quei mentori vecchio stile per i talenti emergenti, un ruolo di estrema importanza in ogni tipo di attività agonistica. Ne dovetti parlare con chi mi aveva messo sotto contratto, cioè Les Thacker della ‘British Petroleum’. Stava investendo su di me ed era giusto da parte mia agire in quel modo. Fu molto gentile e benevolo ed ebbe riguardo della mia posizione, mi disse che stavo avendo la famigerata ‘occasione’. La Tyrrell stava disputando un bel campionato ma molte delle gare rimanenti di quella stagione si sarebbero dovute disputare su circuiti molto veloci e le vetture turbo stavano andando forte. Pensai ai miei interessi, con la Tyrrell mi sarei trovato svantaggiato con quel tipo di motore. Non sarebbe stata da parte mia una mossa intelligente per il prosieguo della mia carriera e finii per declinare l’offerta”. Non ci fu nessuna gara in Formula Uno, però, arrivò l’occasione per i test. Nell’Agosto del 1984 Dumfries si infilò nell’abitacolo della Lotus-Renault a Donington Park, poi, grazie agli utili appoggi del cugino provò la Williams-Cosworth, sempre nello stesso circuito e, infine, per aver vinto il titolo di F3 britannica la ciliegina sulla torta fu il test con la Mclaren-TAG Porsche Mp4/2 a Silverstone. Nel mese di Dicembre scese in pista a Kyalami con la Brabham-BMW per una tre giorni di prove. A questo punto della carriera, Dumfries si ritrovò impiegato anche nel mondiale prototipi, nel ‘World Endurance Championship’, al volante di una Porsche 956. Nella 1000 km di Spa a Settembre Dumfries fece coppia con Richard Lloyd ma la macchina dovette ritirarsi dopo soli sei giri a causa di una perdita dell’olio. In occasione della 1000 Km di Sandown Park, a Dicembre, la vettura, stavolta, sponsorizzata ‘Rothmans’ e guidata da Dumfries e Jack Brabham, risultò ‘non classificata’ pur avendo preso parte alle qualifiche. Si trovava lì per esigenze promozionali e dietro si cela una storia: Rothmans era in procinto di finanziare la carriera di Dumfries e la March della scuderia di Dave Price nel campionato di F3000 del 1985, un accordo legato a doppio filo con un altro progetto che stava prendendo forma simultaneamente, un contratto da terzo pilota con la scuderia di Formula Uno Brabham. Ci fu un intoppo, abbastanza grosso: Ferrari volle saggiare le capacità dello scozzese e lo convocò a Fiorano. Johnny scelse di percorrere romanticamente la via che lo avrebbe fatto approdare al ‘cavallino rampante’. Firmò un contratto da tester con la scuderia italiana ma ciò ebbe ripercussioni sulla sua carriera: avendo perso l’appoggio di Dave Price e i soldi della Rothmans si ritrovò nella posizione di dovere trovare soluzioni di ripiego per continuare il suo programma di apprendistato nelle formule minori, segnatamente nella neonata ‘FIA International Formula 3000’. “A ripensarci fui talmente stupido! Avrei dovuto optare per la Brabham. Non mi piaceva particolarmente Fiorano come circuito. E’ veramente un tracciato corto e stretto, una costruzione su un lato e il resto del panorama non è particolarmente mozzafiato, anzi, direi surreale. La vettura, poi, era particolarmente impegnativa da guidare e il compito che mi era stato assegnato era dare indicazioni per sviluppare il loro quattro cilindri. Il progetto fu accantonato e dopo un paio di mesi non fui più impiegato”. Dumfries aveva cominciato la stagione in F3000 con la Onyx Racing, speranzoso di potere migliorare gara dopo gara pur in ristrettezze economiche. A fine stagione, però, i risultati non eclatanti non sembrarono promettergli una fulgida carriera: i soldi erano finiti. Fortunatamente per lui, Senna impose il suo volere in Lotus, sulla base del fatto che nella scuderia scarseggiavano i fondi per potere avere due vetture altamente prestanti nel corso dell’intera stagione. Mentre in Inghilterra la stampa accusò Senna di arroganza e Peter Warr di mancanza di carattere, Dumfries fu scelto tra le perplessità generali. Se questa possibilità gli fosse stata data dodici mesi prima, il clamore sarebbe stato ben diverso e in molti avrebbero steso un tappeto rosso per la promozione del ‘Conte’. “A dire la verità ero molto infastidito, perché, quantunque avessi fatto schifo in F3000 l’anno prima, credevo in me e nelle mie potenzialità. Andate a guardare le fotografie dell’epoca. Traspariva tutto il mio entusiasmo e la mia sicurezza. Fortuna, destino, potete chiamare quell’evento come vi aggrada ma quel che contava era che io ero convito di potere ben figurare, di essere abbastanza veloce. Senna è sempre stato uno di quelli che lavorava molto entro la sua cerchia, accadeva questo già ai tempi della F3. Era un tipo che amava distaccarsi dal resto della gente e ciò accadeva abbastanza spesso, rispettavo questo suo lato e, dopotutto, perfino io a volte preferisco stare solo. Aveva un carattere interessante, insolito. Anche prima di conoscerlo, pensavo fosse intelligente. Sospetto che quel suo modo di fare, cioè l’apparire solo vagamente interessato al resto che lo circondava fosse parte di una tattica, insomma, il lato da stratega della sua personalità: lo stare lontano dalle persone, il tenerle dove lui voleva che stessero ma, forse, anche la conseguenza di un carattere insicuro ... non lo so. E’ soltanto una mia personale opinione e potrei sbagliarmi del tutto. Era diretto, non usava sotterfugi e ho sempre apprezzato questo. Al tempo del nostro primo test al Paul Ricard mi disse: - “Sai, tutto questo clamore insensato e questa presenza della stampa non ha senso, per noi è solo una distrazione ulteriore. Dobbiamo pensare a fare il nostro lavoro, mostrare al meglio la nostra abilità, unicamente questo’. Durante l’anno, lì (in Lotus ndr) non ci fu propriamente uno spirito di squadra ma, d’altronde, avevano una tabella da seguire e un loro programma, noi (la squadra che mi seguiva in modo diretto ndr) sapevamo di essere relegati al ruolo secondario e facevamo il nostro compito, che, paragonato al loro era ben poca cosa”. A Dumfries toccò il compito di sviluppare la nuova e inaffidabile scatola del cambio da sei marce. Alla fine della fiera giunse due volte a punti e con l’arrivo di Honda e di Satoru Nakajima si ritrovò a piedi. Gli sforzi di rimanere in Formula Uno presero la forma di trattative con Tyrrell, le quali si risolsero in un nulla di fatto. A 1987 inoltrato giunsero le prime serie offerte dal mondo delle vetture prototipi. Iniziò a gareggiare con la Ecosse C2 a Silverstone, poi qualificò la Sauber-Mercedes a Le Mans e nella 1000 Km di Brands Hatch, nel ‘Britten Lloyd Racing’ con una Porsche 962 guidata assieme a Mauro Baldi arrivò un secondo posto. La carriera stava decollando nuovamente. Dumfries aveva tentato a lungo di mettersi in contatto con Tom Walkinshaw, ora, a parti invertite, era il compatriota a dargli la ‘caccia’: “Tom era una di quelle persone con cui potevi avere una sola possibilità e, dopo averti giudicato, se non ti riteneva all’altezza per lui non esistevi più. Dopo la gara di Brands Hatch fummo costretti a camminare assieme per un breve tratto, quel tunnel sotto il rettifilo dei box che porta alla sala stampa. A un certo punto lo sento alle mie spalle esclamare: - ‘Congratulazioni, bella mossa hai fatto oggi con questo risultato. Per la prossima stagione, fammi una chiamata se ti ritroverai senza volante’. Feci proprio quella telefonata e mi accasai per il 1988”. In realtà, Dumfries fece in tempo a debuttare già alla fine dell’anno per aiutare Raul Boesel ad agguantare il titolo. I meriti del debutto vittorioso in Belgio furono divisi fra lui, il brasiliano e Brundle. Nella sua ultima apparizione con la Sauber, al Nürburgring l’umore non era stato dei più felici: - “Mi toccai con una Gruppo C2 in quella chicane veloce alla ‘Veedol’ in prova. Il contatto fu talmente forte che l’altra vettura scomparve alla mia vista. La ragione la ravvisai in ciò: al momento in cui capitò l’incidente, il povero tizio che la guidava, di sicuro, stava ancora spingendo sull’acceleratore. Infatti, ricordo ancora adesso il suono ancora potente del suo motore ‘wheeeeee’, nonostante fosse arrivato il momento di sterzare bruscamente! Distrusse la sospensione frontale destra della mia Sauber e fui costretto a tornare ai box con la ruota appoggiata in una posa poco naturale sul parabrezza. I meccanici mi guardarono storto con un’espressione torva e con il morale sotto i tacchi, rimuginando un pensiero del tipo ‘Come ha potuto ridurre così la nostra bellissima creatura?’ Ah, beh, devo ammettere che pure il telaio era andato”. Dumfries usò, quindi, la vettura di riserva per la gara. “No, non andò così. In verità, Peter Sauber non mi fece più guidare le sue vetture da quel momento in poi!”. Un altro bel successo arrivò nella serie IMSA oltreoceano, dove Johnny fu messo al volante dal ‘Dyson Racing’ di una Porsche 962, ancora una volta per aiutare il pilota di punta della scuderia a vincere il campionato. Era Price Cobb: “Si trattava di una Porsche 962 non modificata, penso, e rammento ancora quanto fosse tremenda da condurre. Le sensazioni non erano delle migliori, veramente difficile da descrivere. In più, ero abbastanza infuriato perché mi ritrovavo a guidare questa m**** (il Conte usa un linguaggio poco elegante forse riferendosi non tanto alla vettura ma al livello del campionato o alle asperità della pista di Road America ndr) in mezzo al Wisconsin, mentre sentivo che il mio posto sarebbe dovuto essere in Formula Uno. A ogni modo, per fortuna, piovve in tempo per la gara. Io e Oscar Larrauri, là fuori, sembrammo due pazzi intenti a spazzare via l’intero parco partenti (in verità, il testo usa il verbo ‘destroy’: non saprei dire se in modo figurato, come l’ho usato, oppure nel senso di ‘andare a contatto e forzare al ritiro gli avversari’, il che potrebbe anche essere plausibile). Fu una bella sensazione, trionfai e Rob Dyson mi guardò pensando che fossi la cosa migliore che gli fosse potuta capitare dopo il pane in cassetta. Beh, almeno per cinque minuti ebbi il mio momento di gloria ...” Johnny fu richiamato da Dyson a correre a San Antonio ma commise un incidente con la vettura di Cobb verso gli ultimi giri. Ci fu un’altra occasione a Columbus: fu lo scozzese a incominciare la gara e terminò il turno portandola incolume al rifornimento di metà gara. Poi, si mise al volante di quella che Dyson stesso aveva guidato nella prima parte di gara: commise un errore e ci fu il pata-trac. Anzi, ce ne furono due, oltre a quello che coinvolse la vettura: “Lasciai il circuito prima della fine della gara, senza salutare nessuno. Pensai soltanto a prendere l’aereo e mandare af******* tutto quel carrozzone, il prima possibile. Quel modo di comportarmi avventatamente non mi aiutò, affatto, a entrare nelle grazie del buon vecchio Rob”. Allora torniamo a parlare delle cose positive, nel 1988 arrivò un momento speciale, quella vittoria a Le Mans con la Jaguar assieme a Lammers e Wallace: “Potevamo contare su un’organizzazione fantastica, dal momento che Tom Walkinshaw sapeva davvero condurre una squadra. Andy fu fantastico – la sua prima Le Mans, va detto anche questo – e Jan un leader naturale. Era dannatamente veloce e si fece carico di preparare l’assetto durante le prove, un lavoro davvero encomiabile. E’ la persona con cui legai di più in quell’ambiente. Sono contento di avere vinto quella gara assieme a lui, cementò il nostro rapporto personale”. Il resto della stagione non si dimostrò un vero successo: “Anzi, fu un vero pastrocchio. E’ risaputo che Tom non amava coloro che erano soliti fare incidenti troppo spesso e, infatti, mi diede il benservito alla fine dell’anno ...”. Messosi in luce con la prestazione di Le Mans, Dumfries si giocò le sue carte e firmò per la Toyota. Vi rimase due anni: “I giapponesi sono stati sempre attratti da Le Mans e il fatto di averla vinta mi spalancò le porte. Ai loro occhi, quella vittoria, era un incentivo a mettermi sotto contratto”. Iniziasti con un vecchio quattro cilindri, montato sulla Toyota 88C : “ Era potente, in modo sconcertante” e, poi, decisero di far debuttare la Toyota 89C-V ma mi trovaste in grande difficoltà nell’adattarvi alle stringenti regole sui consumi: “La sensazione di essere consapevoli nel potere andare veloci per cinque ore e, poi, doversi limitare per il resto della gara, era dannatamente demoralizzante (Dumfries usa un paragone poco lusinghiero dicendo, in realtà, ‘guidando come farebbe una donna anziana’ ndr). In aggiunta, i rapporti tra me e Lees non erano proprio lusinghieri. Lui era la stella del firmamento, si era già affermato in Giappone, io, però, volevo primeggiare”. Entrambi lottarono per affermarsi e diventare il pilota di punta della Toyota. Il programma Benetton di quegli anni era un altro progetto che tenne vive le sue speranze di tornare in Formula Uno. Tuttavia, la sua carriera stava raggiungendo velocemente il capolinea. Ci fu un tentativo di approdo nella CART, limitato enormemente dalle scarse possibilità di finanziamento. Gli sponsor non furono mai un punto forte di Dumfries. Il tempo di comparire a Le Mans un’ultima volta nel 1991 e poi la malattia del padre: arrivò il momento del ritiro. (....) Nel duemilatré fu tentato dalla sua vecchia conoscenza Dave Price, a ritornare in scena a Le Mans. La proposta di provare una DBA-Zytek gli fu presentata: “A essere sincero mi sono sentito sempre frustrato per il fatto di essere stato costretto al ritiro troppo presto. Accettai di buon grado di essere messo alla prova, tentare non avrebbe nuociuto. Dave si fece in quattro per convincermi e io apprezzai, davvero, il gesto. Quando mi trovai lì, sapete cosa successe? Mi capitò di pensare ‘No, non fa più per me’. Il problema di fondo era che, davvero, non mi sentivo più in grado e senza voglia. Non mi interessava più salire in macchina con quelle velocità, non vi ravvisavo più divertimento, non avrei cambiato idea neanche se fossero state le colline di Goodwood. Mi sono goduto ogni singolo secondo negli anni in cui correvo. Oggi, però, quei giorni rappresentano per me il passato”. Già, di questi tempi, a parte occuparsi della manutenzione e amministrazione della tenuta di famiglia a Mount Stuart, un’attrazione turistica tra l’altro, gestisce due aziende di proprietà e un’impresa manifatturiera tessile, la ‘Bute Fabrics’. Non dimentichiamoci, poi, dei suoi sei figli! Tutto questo – e anche il nome Johnny Bute -, ora rappresenta il futuro. ________________________________ ‘mau65’ chiedeva delle origini di Dumfries. Dal momento che l’ordine gerarchico dei titoli nobiliari scozzese è stato soppiantato con l’unione dei due Regni nella prima decade del secolo Settecento, dobbiamo rifarci a quello in auge, tuttora, in Gran Bretagna, il quale è, pressappoco, questo in ordine ascendente: ‘Baron’ (che corrisponde al nostro baronato, i cui beneficiari hanno il titolo di ‘Lord’), ‘Viscount’ (Visconte), ‘Earl’ (Conte), ‘Marquess’ (Marchese), ‘Duke’ (Duca) e, poi, i più conosciuti ‘Prince’, ‘King’ e ‘Emperor’. Le differenze terminologiche fra il nostro ordine e il loro sono dovute, ovviamente, alle diverse vicende storiche che si sono ripercosse in un diverso sostrato culturale-linguistico: colui a cui ci si rivolge con il titolo di ‘earl’, da noi sarebbe ossequiato con l’appellativo di ‘conte’, dal latino ‘comes’ (‘compagno di guerra’: chi si distingueva in battaglia per il valore militare aveva la possibilità di ricevere delle terre) . Da loro si chiama ‘earl’ in quanto, mi sono documentato un po’, deriverebbe dallo scandinavo ‘jarl’. Tale parola avrebbe lo stesso significato di ‘conte’ . Avrebbe anche un senso, dal momento che gli Anglo Sassoni derivano da popolazioni che, scese dalla Scandinavia, si stanziarono prima nello Jutland (Danimarca), Schleswig –Holstein (la Stato federale tedesco dove si trova Kiel, per intendersi) e Alta Sassonia (da cui Sassoni), poi in Frisia e da lì trasmigrarono verso le isole britanniche. Inoltre, ho avuto modo di venire a conoscenza che anche il termine ‘Holstein’ è antico sassone della tribù mezzana fra le tre di quella zona, visto che in latino venivano chiamati ‘Holcetae’. ‘Marquess’, invece, è molto simile al nostro ‘marchese’ in quanto è entrato nella nostra lingua essendo un apporto linguistico germanico: i Franchi crearono le ‘marche’, dei territori di frontiera, che, in quanto ai margini del regno in formazione dovevano essere protette con più vigore, ecco perché venivano affidate a persone verso cui il re riponeva maggiore fiducia e, quindi, i marchesi avevano più poteri dei conti. Poi, i Romani avevano già avuto la distinzione fra territori di frontiera e i territori interni (province senatorie), da Ottaviano Augusto in poi, quindi, non abbiamo fatto fatica a digerire la novità linguistica. Quindi, Dumfries, alla morte del padre, ha perso il titolo minore (earl = conte) per ereditare quello maggiore di ‘marchese’ già appartenuto al padre. In più, si fa chiamare ‘Lord’, pur essendo un appellativo proprio dei baroni, poiché in Inghilterra è consuetudine farsi chiamare così anche se ‘Conti’ o ‘Marchesi’. Ha flebili legami di sangue – sarebbe imparentato secondo la linea collaterale ascendente ma non legalmente parlando, con i monarchi Windsor, cioè con Elisabetta II d’Inghilterra. Infatti, entrambi hanno uno stipite comune in Guglielmo IV che regnò nella prima metà dell’Ottocento. Il legame è rappresentato da una donna, tale Elizabeth Hay. Elizabeth Hay, Contessa di Erroll fu quella che, oggi, in Italia chiameremo ‘figlia nata fuori dal matrimonio’ (o ‘figlia naturale’ o ‘figlia illegittima’ ndr) del re Guglielmo IV d’Inghilterra, zio della famosa regina Vittoria. Costui come si sa, morì senza lasciare in vita figli legittimi e fu costretto a lasciare il trono alla nipote, ultima esponente regnante del Casato di Hannover in Gran Bretagna. Il trono della Gran Bretagna e Irlanda (non quello di Hannover che ebbe un diverso trattamento per via della legge salica) morendo Vittoria, passò al casato ‘Sassonia-Coburgo e Gotha’ nella persona di suo figlio Edoardo VII: il nipote in linea retta discendente di terzo grado, Giorgio V (il nonno paterno di Elisabetta II), dopo la fine della prima guerra mondiale cambiò il nome al casato per ragioni di opportunità politica. Comunque, tornando a Dumfries questa ascendente di Dumfries acquisì il titolo di contessa soltanto grazie al matrimonio che la madre riuscì a farle contrarre, dal momento che la stessa madre, l’amante di Guglielmo IV, era una donna di spettacolo che non aveva origini nobili e il padre biologico non avrebbe potuto lasciarle alcun titolo, in virtù dello svantaggioso status di filiazione. Dalla primogenita di questa Elizabeth, tale Lady Ida Harriet Augusta Hay discende Dumfries. Va detto che questa Lady Ida Hay era sorella gemella di colui che poi ereditò il titolo di Conte di Erroll in quanto primogenito maschio, quindi, Johnny Dumfries non ha preso questo titolo ulteriore. Non saprei dire se questa sia la linea paterna o materna di Johnny Dumfries (o Lord Bute come vuole essere chiamato oggi). Quanto al nome ‘Stuart-Chricton’ le origini, ovviamente, vanno fatte risalire al padre di Dumfries. La linea paterna prende le mosse da un tale John Stewart vissuto nella seconda metà del Trecento, figlio illegittimo di Roberto II di Scozia della casata degli Stewart, quando questi ancora non era salito al trono della Scozia. Roberto II era il nipote di terzo grado in linea retta discendente di quel famoso Robert Bruce - divenuto, in seguito, Roberto I – che, assieme a William Wallace, lottò per l’indipendenza della Scozia alla fine del ‘200 (fatti storici ripresi, più o meno, da Mel Gibson con ‘Braveheart’). Più esattamente, era il figlio della figlia avuta dalla prima moglie. Però, dobbiamo considerare che, al tempo, erano in uso le regole di diritto germanico (fatte proprie dal diritto canonico) quanto a computo dei gradi di parentela: quindi, era il nipote di secondo grado. Comunque, questo John Stewart (o Steward secondo alcune fonti) ebbe in concessione le terre di Bute dal padre , il quale non era legato alla linea di Robert Bruce. Poi, i discendenti, attorno alla seconda metà del Cinquecento, cambiarono il loro cognome in ‘Stuart’, non si sa bene per quale ragione (forse per rivendicare di essere imparentati con Maria Stuarda?). In questo periodo, uno degli avi di Dumfries acquisì il titolo di ‘Baronet’, che nella scala gerarchica peculiare dei titoli nobiliari nella fase in cui la Scozia era indipendente, quindi anteriormente ai cosiddetti ‘Acts’ del 1707, quando vi fu la riforma, era anche definito ‘Lord of Parlament’. Equivaleva al nostro baronato e dava la possibilità di rappresentare i ‘Bute’ nel Parlamento scozzese. Poco prima della perdita dell’indipendenza, il titolo fu portato a un rango superiore, potendo fregiarsi i possessori delle terre di Bute del titolo di ‘Earl’. Alla fine del secolo XIX, per via dei molteplici possedimenti e titoli, furono innalzati ulteriormente di rango e divennero ‘Marchesi’.
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